Celebrata come il funerale di un poltronificio, la cosiddetta abolizione della Provincia inizia a mostrare i suoi effetti nefasti. Perché - al di là dei proclami renziani - questo tipo di ente continua a sopravvivere con vertici paracadutati anziché eletti dal voto popolare. E la riforma, soprattutto, ha innescato un caos generale. Finanze a secco, servizi interrotti o dimezzamenti di servizi, girandola dei dipendenti per riassegnarli ad altri luoghi di lavoro, competenze non si sa bene di chi, una nuova selva di norme contraddittorie, Comuni in subbuglio perché orfani di un punto di riferimento politico-economico importante.
Il colpo di spugna che prende il nome da Delrio già si rivela una mazzata: in particolare a danno della manutenzione stradale e, come presto si vedrà ancora meglio, ai danni delle scuole, oltre che dei trasporti e della promozione turistica. Monica Giuliano, chiamata al difficile compito di gestire Palazzo Nervi nel dopo-riforma, contabilizza sconsolata l'obolo versato negli ultimi mesi a Roma: 13 milioni di euro (fra questi, oltre 800 mila come "contributo ai costi della politica").
Più che smontare il baraccone, il governo ha imposto una cura dimagrante radicale che fa sentire i suoi danni, anche per l'orribile e inetto processo di costituzione delle Unioni dei Comuni, lento e conflittuale, che non sopperisce all'improvvisa assenza dell'ente intermedio.
Se poi le aggregazioni comunali possano rappresentare una sorta di "Province rifondate", è cosa ancora ignota. E se fosse, è dubbio che una laboriosa modifica costituzionale farà realmente sparire le attuali emaciate Province. E' più probabile che per lungo tempo convivano Province e Unioni di Comuni, insieme non appassionatamente.
Felix Lammardo