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Al Direttore | 29 aprile 2016, 19:28

Roberto Nicolick racconta la strage della “corriera della morte”

Roberto Nicolick racconta  la strage della “corriera della morte”

Roberto Nicolick racconta  la strage della “corriera della morte”

La strada è la Provinciale del Cadibona, sono su un tratto di strada tra l'abitato, appunto di Cadibona, e il Comune di Altare, oggi non c'è vento e le chiome degli alberi non si muovono. Tutto tace, solo qualche auto transita, mentre passeggio a bordo strada in una curva oramai rettificata e dismessa.

Sto camminando sulla “curva della morte”, dove 71 anni fa, a maggio, un camion e un bus accostarono per fare scendere 39 prigionieri repubblichini che dovevano essere uccisi dai partigiani comunisti che li scortavano. Fu una strage pianificata, organizzata e portata avanti con un odio da manuale, nota impropriamente come “la corriera della morte”, di cui a Savona preferiscono non parlare grazie ad un meccanismo di rimozione, avvenne precisamente il giorno 13 di maggio , alle ore 17,30, a lato di una curva della strada provinciale 29, al Km 141, proprio quella dove mi trovo io , ora.

Furono “giustiziate”, o meglio assassinate, 39 persone tutte maschi, di una età variabile dai 17 anni sino ai 67 anni. Non tutti ammazzati, sul luogo principale dell’esecuzione , qualcuno fu liquidato in momenti diversi a Piana Crixia e Altare.

Il momento era terribile, sta per crollare il Regime Fascista Repubblicano e le formazioni partigiane scendono dai monti ed escono dalla clandestinità per occupare i centri di potere : Questura, caserme, prefettura, comune, contemporaneamente tutti coloro che hanno fatto parte o hanno avuto rapporti con il governo della R.S.I., preparano l’evacuazione dalla città, in direzione Nord, per raggiungere zone più sicure e sfuggire alle vendette e alle ritorsioni che sono già nell'aria.

Da Savona, un’autocolonna repubblichina parte, percorrendo la provinciale in direzione di Cairo, Acqui Terme, sino a Valenza da dove avrebbe attraversato il Po in direzione della Valtellina. Questa colonna, chiaramente disorganizzata, si frammenta in diversi spezzoni.

Uno di essi, composto da una cinquantina di persone, uomini, donne e ragazzi, si consegna ai partigiani di una brigata dell’Alessandrino e viene internato nel carcere di Alessandria.

La Questura di Savona, oramai occupata da poliziotti ausiliari partigiani, viene avvisata della presenza dei prigionieri savonesi ad Alessandria, invia un convoglio formato da un camion e un bus della Società Tranvie elettriche savonesi, con una scorta di agenti armati sino ai denti.

L’ordine è di prelevare i prigionieri e tradurli a Savona, dove naturalmente non dovranno arrivare mai.

I poliziotti ausiliari partigiani arrivano presso il carcere di Alessandria, prelevano i prigionieri, per i quali inizia il viaggio di ritorno, disseminato da minacce, pestaggi, violenze di ogni tipo, spoliazioni ed infine il plotone di esecuzione, che agirà lungo la strada a circa 13 chilometri da Savona.

Il destino dei prigionieri era già segnata in partenza. Quello che avvenne dopo fu uno dei tanti episodi della Guerra Civile che insanguinò il Nord – Est dell’Italia.

Dopo due giorni di viaggio e di percosse, stanchi, pesti e rassegnati, i prigionieri Repubblicani, furono caricati sul cassone del camion, per percorrere l’ultimo tratto di strada, sino alla curva della morte dove sono ora io.

Lì vennero fatti scendere e depredati degli effetti personali, abiti e altro, quindi scalzi, attraversarono un breve tratto di boscaglia, lontano dalle case di Cadibona. Vennero allineati a piccoli gruppi di tre, su un terreno sopraelevato che dominava una fossa naturale. In quel punto il plotone di esecuzione cominciò a sparare sui prigionieri a raffica usando i mitra Sten. Qualcuno cercò di fuggire ma venne ripreso e passato per le armi. Sui nomi dei responsabili di questa strage, ancora oggi a distanza di 71 anni, aleggiano incertezza e mistero.

Furono certamente in molti a premere il grilletto, non solo gli uomini della scorta anche se non tutti, ma anche altri partigiani comunisti arrivati appositamente da Savona per partecipare alla mattanza.

Era una occasione d’oro che molti non vollero farsi scappare: poter usare le armi su un gruppo numeroso di fascisti inermi senza rischio.

L'unico partigiano che ebbe un atteggiamento umano e corretto, Viglietti detto Zeta, si attirò l'odio dei suoi colleghi e dopo qualche settimana scomparve senza lasciare traccia.

Qualcuno degli esecutori si gloriò di aver partecipato, altri pur non avendo sparato ammisero di averlo fatto per vanteria, altri ancora, pur avendo ucciso, non ammisero il fatto per astuzia e per non incappare in indagini.

Alla fine della sparatoria udita dagli abitanti di Cadibona, i corpi della vittime rimasero nella fossa, esposti alla notte ed agli animali. I corpi rimasero li’ sino alla sera successiva, quando un gruppo di persone, formato da partigiani del posto e abitanti di Altare, li trasportarono al Cimitero di Cadibona, dove nel corso della notte, vennero seppelliti in quattro strati sovrapposti, intervallati da calce viva, in una fossa comune.

Nel 1949, per iniziativa di un frate cappuccino, Padre Giacomo, al secolo Eugenio Traverso, che operava di intesa con il Commissariato per le Onoranze ai Caduti in Guerra, funzionante presso il Ministero, le salme furono riesumate, e dopo un difficile riconoscimento dei familiari collocate in apposite bare e seppellite cristianamente nel Cimitero Militare di Altare, detto delle Croci Bianche.

Tutte le salme furono riconosciute tranne due, che pertanto risultano ignote. Nell’aprile del 1950, il Procuratore della Repubblica di Savona, prendendo spunto da una segnalazione della Questura, promosse una azione penale. Venne interessata la Questura di Savona, la quale con un dettagliato rapporto datato 1 luglio 1950, riferi’ al Magistrato inquirente l’esito delle indagini compiute. In tempo successivo l’Istruzione venne dalla Corte di Appello di Genova con provvedimento in data 12 aprile 1952, rimessa alla Sezione Istruttoria. le imputazioni furono di omicidio volontario aggravato plurimo ai danni dei 39 fucilati di Piana Crixia e Cadibona e di rapina aggravata in danno degli stessi; occultamento di cadaveri e abuso di autorità.

Tutti gli imputati si dichiararono innocenti. la corte di appello di Verona riprese il procedimento nelle sue competenze, e tutti i responsabili se la scamparono. Questi crimini furono catalogati come atti di guerra e pertanto coperti da amnistia quella del Guardasigilli Palmiro Togliatti.

I congiunti delle vittime, dovettero subire oltre all’ingiustizia anche lo scherno e la derisione degli assassini che giravano liberi per Savona, salutati ed onorati come dei liberatori, ricordo il soprannome del partigiano che ammazzò il numero maggiore di fascisti, in quella occasione : Fuffi, un nome improprio per un killer che quando morì a 80 anni suonati fu ricordato con questa frase “ per il lavoro che faceva ,sarà ricordato da generazioni di bambini”. Anche questa fu la resistenza. Rammento anche quello che disse un partigiano comunista che operava in Piemonte : il mitra fa la legge ed esternò questo concetto dopo aver ammazzato una povera maestra a Bagnasco , Cristina Barberis.

A distanza di anni, una piccola cappella con una ceramica raffigurante una Madonnina posta a bordo strada,ricorda la strage, per ricordare a chi passa quello che accadde qui. Su questo fatto autori di orientamento culturale e politico diverso pubblicarono alcuni libri che tuttavia non possono, neppure volendo, nascondere quello che realmente accadde e cioè 39 omicidi.

L'ignoranza e la disinformazione su questo episodio sono elevatissime, soprattutto fra i giovani: qualche giorno fa parlando con un ventenne Savonese, gli chiesi se era conoscenza del fatto ed egli mi rispose che si, ne era a conoscenza, ma mi descrisse la tragedia come un mega incidente stradale in cui un bus con una quarantina di passeggeri, nel maggio del 1945, era uscito di strada sul colle di Cadibona.

cs

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