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Eventi | 02 novembre 2019, 11:56

Dal 9 al 23 novembre torna Priamart: le opere di quindici artisti in mostra alla Fortezza del Priamar

Dopo sette edizioni in scena nelle Cellette, la rassegna artistica curata da Luciano Caprile si sposta al Palazzo del Commissario. L’ingresso è gratuito

Dal 9 al 23 novembre torna Priamart: le opere di quindici artisti in mostra alla Fortezza del Priamar

Quindici artisti, quattordici mostre personali e un’installazione, in vetrina in uno dei castelli più imponenti della Liguria di Ponente: la Fortezza del Priamàr.

Da sabato 9 a sabato 23 novembre torna PriamArt, rassegna artistica che espone nel Palazzo del Commissario le opere di Giorgio Angelini, Aurora Bafico, Paola Bradamante, Gianni Carrea, Mariagiovanna Figoli, Teresa Fior, Corrado Leoni, Pier Giorgio Leva, Michela Manfredi, Ely Martini, Enrico Merli, Patrizia Targani Iachino, Ondina Unida, Agnese Valle e Balàzs Berzsenyi. L’ottava edizione di PriamArt, curata da Luciano Caprile, è organizzata da EventidAmare e dall’associazione culturale Liguria-Ungheria.

«Dopo sette edizioni realizzate all’interno delle Cellette – racconta Pietro Bellantone, Presidente delle Associazioni Culturali EventidAmare e Liguria-Ungheria – PriamArt torna all’interno del forte savonese, nel bellissimo Palazzo del Commissario. Uno spazio espositivo prestigioso, dove i visitatori possono ammirare le opere di quindici artisti di assoluto valore, dai molteplici stili pittorici e scultorei».

L’ottava edizione di PriamArt inaugura sabato 9 novembre alle ore 16, con il curatore Luciano Caprile che, dopo gli interventi di Pietro Bellantone, Giuseppe M. Giacomini e dell’assessore alla Cultura del Comune di Savona Doriana Rodino, spiega nel dettaglio i lavori degli artisti partecipanti. «Dall’alto della celebre fortezza che domina il mare e la città di Savona – aggiunge Luciano Caprile – esponiamo i lavori di alcuni tra i più interessanti artisti che operano nel nostro territorio: dai paesaggi misteriosi di Aurora Bafico all’articolato complesso scultoreo di Balàzs Berzsenyi, realizzato con l’utilizzo di acciaio inox, ottone, bronzo e marmo».

L’ottava edizione di PriamArt inaugura sabato 9 novembre nel Salone della Sibilla in presenza del curatore Luciano Caprile, dell’assessore alla Cultura del Comune di Savona Doriana Rodino e di Giuseppe M. Giacomini, Console Onorario di Ungheria per la Liguria. « PriamArt è una rilevante iniziativa culturale e artistica – evidenzia Doriana Rodino, assessore alla Cultura del Comune di Savona – che è divenuta un’occasione immancabile nel programma di manifestazioni che ogni anno la Città di Savona offre ai visitatori, residenti e turisti.

Un incontro che ogni anno propone le opere di artisti, soprattutto liguri, d’importante levatura, mentre negli anni scorsi abbiamo avuto l’onore di ospitare nelle otto “Cellette” lavori di grandissimi Maestri come Giannetto Fieschi, Flavio Costantini, Aurelio Caminati e Luciano Caviglia e importantissimi critici come Germano Beringheli, Daniele Grosso Ferrando, Stefano Bigazzi e Luciano Caprile. E proprio Luciano Caprile, che ha curato o collaborato anche in mostre pubbliche di Carlo Carrà, Renato Guttuso, Arnaldo Pomodoro, Giorgio De Chirico, Fernando Botero, curerà l’esposizione PriamArt 2019». L’esposizione è aperta fino al 23 novembre, tutti i giorni, dalle 10.30 alle ore 18.00. L’ingresso è gratuito.

«La mostra PriamArt 2019, rappresenta per Savona un appuntamento con l’arte di consolidato interesse e notevole pregio - osserva Antonio Cananà, Prefetto di Savona - Come per gli scorsi anni, l’evento, che si svolgerà nella splendida cornice del complesso monumentale del Priamàr, offrirà l’occasione ai cittadini della provincia, ma anche ai turisti che visiteranno la città di Savona, per apprezzare e approfondire le diverse espressioni pittoriche degli artisti partecipanti». Giuseppe M. Giacomini, Console Onorario di Ungheria per la Liguria, conclude: «sono orgoglioso di aver sempre sostenuto questa manifestazione del PriamArt e di averla vista crescere negli anni con la presenza di artisti ungheresi affiancati alle eccellenze italiane. Savona è una città che da anni ha intrapreso un percorso di crescita economica e culturale importante e la comunità ungherese, una delle più attive sul territorio ligure, ha sempre saputo e voluto collaborare ad esso».

I protagonisti di Priamart 2019 di Luciano Caprile

La rassegna PriamArt, promossa dalle Associazioni Culturali EventidAmare e Liguria-Ungheria di Pietro Bellantone, propone quest’anno quattordici personali (più una) nel Palazzo del Commissario che, dall’alto della celebre fortezza, domina il mare e la città di Savona. Vengono esposti nella circostanza i lavori di alcuni tra i più interessanti artisti che operano nel nostro territorio.

Giorgio Angelini esprime il senso tragico dell’esistenza attraverso una pittura di dolente partecipazione emozionale alimentata da una “pietas” che induce il gesto a delicatezze narrative: i suoi personaggi galleggiano in un limbo che stempera le ferite dell’anima. Lo possiamo vedere in “Commiato supremo” dove solo le dilatate mani della protagonista annunciano la tragedia. Invece la solitudine emerge con tutto il suo incommensurabile peso in “Dal molo, un addio…”: il minuscolo personaggio si trova sul ciglio di un baratro circondato da un insondabile buio e il peso insopportabile dell’abbandono trova qui le misure della disperazione. Compaiono quindi dolenti “maternità” che cercano di preservare il prezioso frutto dell’amore. Anche il paesaggio ligure si alimenta del medesimo clima di sofferenza in un contorcimento di ulivi che sembrano assorbire i travagli di una terra che entra in simbiosi spirituale con i suoi abitanti, E la “Resurrezione” si può solo ottenere dall’abbraccio di chi condivide la stessa sorte.

Così Angelini si racconta e ci racconta con il delicato e partecipe gesto che stempera il dolore di ogni ferita esistenziale. I paesaggi di Aurora Bafico profumano di mistero quando l’artista riesce a far filtrare la luce dalla lontana sequenza di alberi come avviene nel “Bosco del Beigua” o in “Castelvecchio. Arco di pietra” o in “Cisano sul Neva” dove le ombre accompagnano lo sguardo fino alla comune dissolvenza, fino al consumarsi di un’attesa nella solitudine, nel silenzio. Altrimenti sono le strutture imponenti di un antico complesso monumentale a presentarsi come singolari icone che misurano il loro e il nostro tempo: così il “Castello di Balestrino” si traduce nell’impronta di un mito, così il Borgo di Castelvecchio sigilla con lei la difesa di una conquistata e preservata austerità. Il tempo sembra essersi fermato nel momento stesso della pennellata che cattura l’immagine: il nostro sguardo rimane pertanto al di qua della conoscenza ad accentuare maggiormente la severa seduzione di tali dipinti. Le “Galassie” di Paola Bradamante enunciano il mistero di uno spazio interiore che si espande al di là dello sguardo andando a conquistare quell’infinito che alberga dentro di noi e si propone come metafora dell’universo. Le fotografie digitali elaborate graficamente al computer dall’artista muovono fluide correnti che disegnano allusive profondità notturne in cui smarrirsi oppure fanno emergere macchie fantasmatiche o distillano ritmiche onde propulsive. Questa sua particolare ricerca la conduce in un territorio para-informale che nutre, distilla e dilata la percezione di una realtà perennemente fuggitiva, difficilmente raggiungibile. Le sue sembrano dunque “galassie” dell’inconscio che contengono suggestivi quesiti da recepire, da assimilare e da sciogliere in personalissime immagini. Sono rappresentazioni in cui specchiarsi per trovare il filo di un discorso o di un tragitto che ci appartiene. Quando un artista interroga la natura, cerca di trovare in essa qualcosa che intimamente lo riguarda.

Quando Gianni Carrea ritrae gli animali incontrati e fotografati nel corso dei numerosi viaggi in Africa cerca di estrarre dai loro sguardi e dai loro comportamenti quella scintilla interpretativa che sigilla l’opera. Pertanto il bianco e nero di “Nella tenebra” o la conquista di pallide tonalità quasi monocromatiche reperibili in “Mirare in alto” ci consegnano il dono di due sguardi di diversa seduzione: nel primo caso l’osservatore subisce una inquietante trafittura; nel secondo la pensosità del leopardo si ammanta di umana consapevolezza. Due stati d’animo subiti o acquisiti nel momento stesso della lunga, accurata creazione sulla tela. “In agguato” e in altre composizioni che privilegiano una suggestione di contrasti timbrici o di assorbimenti tonali il discorso scivola lungo il piano dell’onirico, nel solco di quella ricerca emozionale che riesce a coniugare la realtà di partenza con il desiderio di interpretarla al di là di ogni schema, solo privilegiando il proprio talento. Così possono nascere dipinti come “Controluce” o come “Fenirosa”, dove il soggetto diventa il pretesto espansivo dell’invenzione. E dove si possono specchiare e idealmente riconoscere anche i personaggi rappresentati in “Osmosi” e in “Collane Samburu”. Così quel mondo in dissolvenza sembra appartenerci anche come un ricorrente rammarico.

Genova è catturata per folgorazioni sovrapposte, quasi appunti di taccuino da consegnare alla memoria e da riversare così per successive impressioni sulla carta attraverso un rapido e lieve segno accarezzato e completato dall’acquerello e dalla tempera che forniscono un delicato gioco di trasparenze. I racconti di Mariagiovanna Figoli sembrano nascere da un simile impulso compositivo che concede visioni ravvicinate o sovrapposte di simboli della città che appartengono alla vita e all’emozione di tutti coloro che in questi luoghi o in questi monumenti ritrovano il proprio spirito. Così “Carlo Felice” estende lo spazio teatrale all’esterno, alla piazza che l’accoglie; di rimando “Dante” coniuga le celebri, storiche torri di Porta Soprana coi grattacieli costruiti negli anni Trenta del secolo scorso in un abbraccio di sognante armonia; mentre “Prè” segue il processo ascensionale che parte dalla Commenda. Inoltre “Genova di colori” e “Genova di pietra” esprimono due caratteristiche custodite nel centro storico. Attraverso queste opere si rivive quindi un sogno o un desiderio che coniuga l’appartenenza alla nostalgia. I pastelli di Teresa Fior raccontano l’abbandono di piccole cose ovvero di memorie che suggeriscono ancora il recente transito di chi le ha usate e possedute. Ne “La lettera” la busta aperta sui fogli, gli occhiali lasciati sul tavolo e il bicchiere vuoto ci consegnano nella penombra il senso di una presenza. Addirittura le bolle sospese nell’aria in “Giochi d’infanzia” chiamano direttamente in causa il bambino che non vediamo ma che possiamo immaginare nascosto al di là del quadro. La stessa sensazione emerge dal cavallo a dondolo che si affaccia al culmine delle scale di “Ricordi evocati”. Le persone non raffigurate emergono con metafisica leggerezza in “Metamorfosi “e in “Metamorfosi 2” sotto l’aspetto di manichini alle prese con farfalle o con origami.

La silente sospensione di uno straccio contro il muro in “Angolo dello studio” e la sottoveste lasciata sulla sedia in “Attimi sospesi” alimentano il clima di provvisorietà e di recente abbandono che viene sintetizzato da “Presenze” e da “Presenze 2”. Sembrano raccontare l’effimero transito della vita. L’evocazione di un mondo fantastico, onirico permea il lavoro di Corrado Leoni. Un mondo da cui emergono anche timori esistenziali da esorcizzare attraverso le immagini di un racconto. Il dipinto intitolato “Particelle della mia mente nel mondo futuro” proietta desideri e ansie verso il sole rosso che tramonta all’orizzonte oltre la propria ombra e oltre un paesaggio di rovine. Invece ne “La sconfitta della morte” una grande falce giace su un paesaggio notturno e ne “La luce della sapienza” i fogli di una verità senza tempo sorvolano le innevate vette delle montagne. Il suo racconto si stempera e si dilata in allegorie che vanno a sollecitare certi segreti o certe figure che fioriscono dall’inconscio. Questo è il caso della fanciulla che appare in “Dietro la città” o che interroga i fantasmi che percorrono il cielo di “Parlando con la tua anima”.

E quando ne “I cacciatori dell’oro” o ne “Il bene e il male” compaiono applicazioni di rami che marcano e assorbono verso l’esterno la scena, quel mondo assume la tattilità della concretezza. Pier Giorgio Leva affida al computer il ruolo di procacciatore di suggerimenti creativi. Infatti le sue immagini nascono dalla tecnologica partecipazione di questo strumento capace di assecondare o di procurare movimenti, pulsioni, varianti immaginative alla tangibile realtà che rimane comunque come traccia, come sedimento, come riferimento di partenza. “Il suonatore di tromba” ci consegna un accenno del suo strumento prima che il liquido labirintico scioglimento delle linee insegua l’aereo percorso delle note. Di contro “Processione” mantiene nella dissolvenza l’ondeggiante profilo dei personaggi che si ritrova più corposamente marcato in “Carnevale di Venezia”.

Quando l’immagine di riferimento assume una preponderanza narrativa, l’impegno dell’artista è quello di sottolineare emozionalmente l’evento (è il caso di “Tsunami” investito da un ripetuto gesto di stravolgimento visivo e di “Morandi 14 agosto 2018” immerso in un tangibile e cupamente azzurro silenzio) o di vestirlo di soave poesia (si veda la leggerezza che accompagna “Ali al vento”). La copertina della “Settimana Enigmistica” è l’immagine di riferimento di Michela Manfredi. Da lì parte il suo viaggio creativo che la induce a occupare lo spazio riservato alle “parole crociate” con l’effige di un personaggio che vanifica tutte le definizioni relative al gioco (da lei annullate o velate a colpi di pennello) per costruire un ulteriore gioco ovvero una sorta di personalissima “battaglia navale”. Pertanto il volto di Greta Garbo va a occupare tutte le caselle in un acrilico su tela contornato da ritmiche sfumature di rosso. Invece Rita Pardo gioca la sua scommessa in un ritratto “inquinato” da alcune intrusioni di arancione immerso in un clima verde pallido. Ci conquista quindi il sorriso di Lupe Vélez col complice concorso di uno sguardo nei nostri confronti dal momento che non conosciamo ancora il destino del ruolo che ci compete: quello di attori o di profanatori ovvero di tiratori al bersaglio? E tale è il dubbio che accompagna ed esalta il quesito posto dall’autrice.

Gli acquarelli di Ely Martini trasmettono la poesia dei paesaggi e dei soggetti rappresentati. Alla lieve e calligrafica sospensione tra cielo e mare di “Gocce di sole su sfocato inverno” si associa la sfarfallante evanescenza de “L’albero dorato” mentre “La grazia del silenzio” propone uno scorcio di campagna da dilatare ben oltre i limiti spaziali del foglio che contiene le ritmiche tracce del suo gesto. Lo stesso approccio percettivo vale per l’interpretazione dei fiori: “Nel giardino le viole” stempera il graduale gioco dei verdi attorno alle vellutate macchie scure; in “Tacita simbiosi” un ascensionale tralcio accompagna il divenire frastagliato di un ramo; negli “Intrecci all’alba” e nelle “Impressioni d’estate” i petali si sciolgono nelle tonalità che li ha generati a formulare il percorso di un sogno che travalica e impreziosisce la caducità delle cose. Così tutto rimane sospeso come avviene le “Foglie in settembre” a vanificare la misura del tempo che le ha generate. Enrico Merli affida la sua ispirazione principalmente a due temi: la figura umana e il paesaggio che comunque sovente si incontrano per un magico connubio.

Egli infatti intinge le sue opere in un clima di sospensione estatica. Lo possiamo constatare nelle riflesse luci della sera che caratterizzano “Ganzirri” o in una “Chiavari” accarezzata dai bagliori dell’ultimo sole al tramonto. Anche “Il faro di Portofino” si avvale di una interpretazione che accoglie nell’anima di chi osserva le morbide seduzioni dell’imminente sera da condividere con “Tramonto a Punta Chiappa”. La scoperta di un tale palcoscenico emozionale viene quindi trasferita in particolari scene che offrono l’incanto di un momento: ci riferiamo in particolare al “Sogno condiviso” di due innamorati che contemplano il cielo stellato, un comportamento amoroso che ritroviamo nel mosaico incantevole di “Bonassola” e nell’alato “Magico incontro” che profuma di sogno.

Perfino la trattenuta tristezza di “Matilde” è confortata dallo sguardo al miele della luna mentre “La bellezza salverà tutto” è un’auspicabile promessa esibita dalla leggerezza di una ballerina in tutù e in punta di scarpette che ha come sfondo uno scorcio di Genova. Gli animali rappresentati da Patrizia Targani Iachino hanno una comune prerogativa: entrano in diretta relazione con l’osservatore. I loro occhi indagatori penetrano il nostro sguardo. Lo fa la tigre che chiede “Lasciami libera”, lo ripetono gli occhi azzurri del leone che implora “Dimmi dove e quando”. Allora sembra di assistere a uno scambio di ruoli: le belve feroci siamo noi mentre loro si sono appropriati della nostra presunta umanità. Come se non bastasse ci giunge dalla profondità della notte l’imbarazzante domanda di una pantera nera che in un barlume di luce chiede “Cosa stai facendo umano”. Si susseguono quindi, sempre in un primo piano che trattiene a stento il balzo dell’immagine nella nostra realtà, la tigre del Bengala, la tigre siberiana, la leonessa, due zebre accoste in un incrocio di strisce, un elefante che implora “Non farmi male” e un rinoceronte (“Rino”) che pare assumere un moto di ribellione mentre esibisce un corno affilato. L’unica presenza umana è rappresentata da “My Angel, Angelo di Monteverde”: assume l’atteggiamento della sfinge che non concede sicure risposte ma pone, come sempre, ulteriori quesiti. Le composizioni di Ondina Unida si avvalgono dell’incontro e della commistione di diversi materiali in grado di fornire corpo e spessore anche tattile a un mondo che travalica il contingente per costruire un universo in cui proiettare le nostre ansie e le nostre speranze di resurrezione.

Se il dipinto intitolato “Sogni persi nel cosmo” si risolve in una esplosione di luci nel ribollente magma che ci accoglie, “La porta del tempo II” esibisce il varco del mistero. Di contro “Orione” si presenta con un trittico di formule da sciogliere e da decifrare. E quando l’artista mette contemporaneamente in scena l’acrilico, la resina e la ceramica sgorgano sulla tela o sulla carta quelle suggestioni spaziali popolate di citazioni oniriche che possiamo reperire in “Portale” e ne “L’idea in testa”. Anche la figura umana deve fare i conti con un mondo da recepire e da conquistare per coltivare una speranza di salvezza. Pertanto “La nuova via”, intrapresa da una fanciulla ignuda, deve avvalersi nel suo viaggio dei simboli posti in evidenza come un corredo mentre il sonno del neonato, che emerge da “I figli dell’universo”, sembra galleggiare in un limbo di incertezze. Per Agnese Valle il mondo è una festa di colori che avvolgono e permeano i paesaggi, scelti di volta in volta, da trasformare in incanto, da tradurre nel desiderio di un’infanzia da riconquistare come una sorpresa, come un miracolo di illuminata creatività. Si prenda la seicentesca “Chiesa di S. Salvatore “che caratterizza la località di Usigni, in Umbria. La ritmica e distillata scelta dei toni non rispecchia la realtà ma rinnova la gioia di quell’incanto che solo gli occhi e lo spirito di un bambino sanno recepire con altrettanta felice immediatezza. Lo stesso concetto vale per il “Palazzo Spelladi” di Pordenone riproposto in una veste da favola. D’altra parte il recupero dello stupore fanciullesco ha affascinato maestri come Joan Miró o Enrico Baj che nella prima età ricercavano il seme più autentico dell’invenzione. Quel seme Agnese Valle lo trova in sé e lo dispensa generosamente nelle sue opere che ripropongono riletture di luoghi che toccano anche Dresda (“Museo l’Albertinum”), il “Duomo di Gaeta”, la milanese “Basilica S. Lorenzo” e così via. La sua pennellata è una bacchetta magica che esaudisce ogni desiderio.

Quale preziosa appendice viene ospitata nella circostanza un’installazione di Balazs Berzsenyi che sigilla il pluriennale rapporto artistico di EventidAmare e Liguria-Ungheria con l’Ungheria. L’articolato complesso scultoreo è stato realizzato con l’utilizzo di acciaio inox, ottone, bronzo e marmo. Si intitola “Il seme delle tradizioni” e racconta, con una essenziale progressione a scalare, la storia di un simbolico personaggio che trattiene in bocca (da lui chiamata “spina”) un frammento di mortaio (quello usato per il nostro pesto) e lo presenta a tre figure più piccole (significano la nostra diversità). Seguono quindi a terra le rotondità di due semi; da ultimo si erge il simbolo di un frutto. Il senso di questo racconto si può spiegare così: altri raccolgono il frutto proveniente dal seme delle nostre tradizioni.

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