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Economia | 22 aprile 2020, 19:07

Alessandro Frega: "Una crisi del terzo settore lascerebbe indietro le fasce più deboli della popolazione"

Abbiamo intervistato il presidente ligure di LegacoopSociali: "Il movimento cooperativo può essere un modello per ridisegnare un modello di sviluppo non incentrato sulle logiche classiche del capitalismo, che hanno fallito"

Alessandro Frega: "Una crisi del terzo settore lascerebbe indietro le fasce più deboli della popolazione"

Crisi sanitaria, economica e conseguentemente sociale, questo il difficile scenario nel quale si trova a operare oggi il mondo della cooperazione sociale e del terzo settore tutto. Il comparto soffre molto per il drastico rallentamento dei pagamenti, e quindi del flusso di liquidità necessaria per fare fronte a stipendi e spese, ma anche di fronte all’accresciuto bisogno di servizi che accompagna l’emergenza coronavirus. L’universo del terzo settore oggi traballa sotto i colpi della crisi, e se non si interviene in fretta, il rischio drammatico è duplice: da una parte numerosi lavoratori perderebbero l’occupazione, e dall’altra alcune fra le fasce più deboli della popolazione si vedrebbero private di servizi, spesso fondamentali per la sopravvivenza, e per la positiva integrazione nella società, proprio in un momento storico in cui questo tipo di esigenza è destinato ineluttabilmente a crescere. E' a rischio la coesione sociale del paese, e anche la politica fatica a trovare soluzioni credibili.

Abbiamo deciso di affrontare il tema con il presidente della LegacoopSociali Liguria, Alessandro Frega, cercando di capire quali sono i rischi di un crollo del terzo settore, e quali strade potrebbero aiutarci ad uscire dalla crisi. 

 

Se il terzo settore non portasse avanti le sue attività di presidio e intervento in campo sociale, quali sarebbero le conseguenze per la vita delle persone nel paese? La coesione sociale ne risentirebbe? 

Sarebbero drammatiche per più di un motivo. Tutti i soggetti impegnati nel terzo settore agiscono creando legami fra le persone con un duplice risultato: da una parte si rinsalda proprio la coesione sociale, ma dall’altra si offrono servizi alle persone. Questo secondo aspetto è particolarmente importante in un momento di arretramento dell’intervento pubblico rispetto al wellfare, una scelta che noi del mondo cooperativistico assolutamente non condividiamo. Nel tempo si sono creati dei vuoti che sono stati puntualmente colmati proprio dal terzo settore. Lo Stato, dal nostro punto di vista, deve ritornare a investire in maniera significativa nelle politiche di wellfare in maniera intelligente, puntando alla creazione di valore aggiunto. Lo Stato deve farsi nuovamente regista di un'operazione di rilancio complessiva del sistema che garantisce la coesione sociale sui nostri territori e dell’azione che svolge nel suo complesso il terzo settore. Occorre tenere presente che nelle nostre comunità liguri ormai l’80% dei servizi alla persona è gestito da realtà cooperative o comunque afferenti al terzo settore privato; quindi la pesante situazione economica che riguarda queste realtà potrebbe portare alla effettiva sospensione dei servizi, con il risultato concreto di lasciare ancora più indietro le fasce di popolazioni più fragili.  

Quali potrebbero essere strumenti utili a sostenere questa attività sussidiaria del terzo settore, nel garantire servizi e integrazione sociale a moltissimi cittadini? 

Gli strumenti che noi abbiamo proposto consistono in un fondo nazionale per il rilancio dei servizi sociali e delle nostre comunità, e in una forte cabina di regia affidata allo Stato centrale, che poi deleghi eventualmente a Regioni e Comuni il compito di coordinare e agevolare le iniziative di tipo sociale e assistenziale. Noi abbiamo chiesto anche a Regione Liguria l’implementazione di un fondo con queste caratteristiche, capace di guidare l’erogazione dei servizi e il loro rinnovamento sulle base delle esigenze emergenti: l’innovazione è un altro elemento centrale della questione, e oggi più che mai di fronte al coronavirus. Una cabina istituzionale opportunamente gestita potrebbe aiutare uno sviluppo coordinato del terzo settore, che si integri con il wellfare pubblico, senza sostituirsi alle funzioni socio-assistenziali proprie dello Stato. 

Spesso di fronte a proposte simili, a volte pur giudicate positivamente, viene opposto il problema della scarsità di risorse a disposizione. Avete identificato possibili fonti di finanziamento? Come rispondere all’obiezione di chi indica nella ristrettezza del bilancio statale un ostacolo? 

Noi pensiamo che la quota di Pil destinata ai servizi sociali debba assolutamente essere aumentata, perché non è immaginabile che un paese civile spenda così poco sul wellfare nel suo complesso, a cominciare dalla sanità, passando per le pensioni, fino ad arrivare al campo del sociale. Siamo convinti che investire nel wellfare non significhi soltanto tutelare i cittadini, ma significa anche costruire posti di lavoro e sviluppo economico, sempre nel rispetto delle regole e dei lavoratori. E’ una cosa che abbiamo sempre sostenuto. Pezzi di politica spesso ci hanno detto che si trovavano d’accordo, ma poi, all’atto pratico, non è mai successo nulla e, anzi, le risorse sono sempre andate calando. A fianco di un fondo dedicato al sociale e di una forte cabina di regia statale poi, potrebbero anche essere gli stessi soggetti della cooperazione sociale a fare raccolta fondi, mettendo in campo la propria rete di contatti, conoscenze: questi soggetti, grazie al fatto che non hanno fini di lucro, sono in grado di destinare risorse allo sviluppo del sistema. Si può mettere dunque insieme un circuito virtuoso, ma è chiaro che il tutto debba partire da un maggiore impegno dello Stato in queste attività, che non sono un costo ma un valore. Pensiamo, ad esempio, che l’inserimento nel mondo del lavoro di una persona con disabilità motoria o di un ex-tossicodipendente significa far uscire dal sistema sanitario questi soggetti con un risparmio immediato per le casse pubbliche, e allo stesso tempo creare impresa sociale, ovvero economia.  

Nel contesto della crisi ha mostrato ancora una volta i suoi limiti anche il modello economico in auge, fatto di delocalizzazione della produzione, di filiere lunghe, e di rapace sfruttamento capitalistico delle risorse naturali. Il modello cooperativistico può costituire parte della risposta necessaria alla crisi economica che accompagna quella sanitaria causata dal coronavirus?  

Io credo di sì. Naturalmente la mia è una visione di parte, ma è una considerazione avvalorata dalle tesi di molti economisti in questa fase. Il modello cooperativo, per il fatto stesso che costruisce partecipazione in chi quei servizi li eroga, è nei fatti uno strumento che può essere vincente. In periodo di crisi il settore economico che è cresciuto con numeri importanti è proprio quello cooperativo, e in particolare della cooperazione sociale. Non è un caso, ma la flessibilità caratteristica di questo comparto, in termini economici, non va contro gli interessi dei lavoratori, ma produce la capacità di investire le risorse che si sono messe da parte e immetterle nel circuito: questa caratteristica ha certamente ridotto un livello di patrimonializzazione già basso, ma ha consentito di continuare a crescere producendo servizi e innovazione. Proprio per le sue caratteristiche il movimento cooperativo può essere uno degli strumenti utili a disegnare un nuovo modello di sviluppo, non incentrato sui meccanismi classici del capitalismo, che ci pare si sia dimostrato nei fatti fallimentare. Lo si è visto nella crisi del 2008, e lo sta dimostrando anche questa crisi innescata dal coronavirus. La preoccupazione forte che abbiamo è che, se non si cambia modello di sviluppo, a crisi passata ci ritroveremo, come spesso accade in momenti storici simili, con più poveri e più concentrazione della ricchezza. Secondo me una simile situazione porterà facilmente a fenomeni di rivolta sociale ingovernabili, e credo che a quel punto avremo delle belle gatte da pelare tutti quanti. 

A volte però la scelta di aderire al modello cooperativistico in una qualunque intrapresa economica può essere dettato dall’interesse a usufruire delle agevolazioni legislative destinate al settore, piuttosto che invece dal perseguimento del fine mutualistico solidale. Cosa pensa di questo fenomeno e come lo si può arginare? 

Abbiamo raccolto milioni di firme contro le false cooperative, e c’è un disegno di legge che sta marciando in Parlamento, anche se non so, nel contesto di questa situazione, quanto il suo iter possa essere rallentato. Si tratta di una proposta proprio per contrastare quel fenomeno: il peggior nemico delle cooperative sono le false cooperative, rispetto alle quali noi siamo impegnati in una lotta senza quartiere. Nei fatti però la cooperazione falsa viene addirittura creata e sponsorizzata da aziende che vogliono risparmiare sul costo del lavoro e quant’altro. Si tratta di un pericolo vero, dal quale occorre difendersi insieme.  

All’atto pratico come si distingue una vera cooperativa da una finta? 

Occorre sapere che le cooperative, al contrario di qualunque altra impresa, sono soggette a un controllo ministeriale obbligatorio che si aggiunge a quelli normali riguardanti tutte le attività economiche. Questa ispezione serve esattamente a valutare se esiste veramente la finalità mutualistica, attraverso un esame dei meccanismi di partecipazione, delle modalità di elezione dei dirigenti e del modo in cui viene attribuito il lavoro. Il problema è però che le cooperative aderenti alle organizzazioni cooperative vengono controllate direttamente dalle centrali per delega del Ministero attraverso un corpo di revisori, mentre le altre direttamente dal Ministero. Questo comporta che le realtà iscritte a Legacoop, Confcooperativa, e Agc hanno una percentuale di controlli che va dal 95 al 98%; chi invece non aderisce a queste centrali è controllata al 4,8%. Si risolverà il problema solo controllando tutti davvero. 

L’emergenza coronavirus ci ha anche catapultato in uno “stato d’eccezionalità” in cui sono stati messi in discussione diritti, libertà individuali e quei pur flebili meccanismi di redistribuzione della ricchezza in funzione nel nostro paese. Quale il ruolo del mondo della cooperazione sociale in questo contesto? 

Si tratta di una questione molto complessa. Sicuramente la cooperazione sociale potrà svolgere un ruolo per migliorare il rapporto tra libertà individuale e sviluppo, però è evidente che dipenderà dai modelli di sviluppo che si scelgono. La compressione dei diritti è un fatto su cui abbiamo espresso preoccupazione anche dal mondo cooperativo: si può dire che la vicenda del coronavirus ci abbia fatto scoprire cose che in molti in realtà sapevano già, cioè che il livello di controllo sugli individui nelle nostre società è pesantissimo. Pensiamo al fatto che oggi si discute di utilizzare app per il tracciamento di massa; è evidente che la sfida in questione riguarda anche il mondo cooperativo sociale, ma il ruolo principale nella gestione del problema riguarda le capacità della politica, dei movimenti e delle persone di organizzarsi per costruire meccanismi di risposta a questa ondata di un qualcosa che potremmo definire autoritarismo. Si tratta di provvedimenti probabilmente giustificati in questa fase - non voglio mettere in discussione certe misure con cui purtroppo dobbiamo confrontarci, e rispetto alle quali poi ciascuno ha il suo punto di vista. Riteniamo ad ogni modo che un elevato controllo sociale, unito all’isolamento delle persone, costituisca un fenomeno certamente pericoloso, perché mina la libertà individuale, quella complessiva della società, e senza libertà non può esserci giustizia sociale. Noi possiamo dare il nostro contributo dal punto di vista della giustizia sociale nel senso di aiutare gli ultimi e renderli protagonisti. 

 

Carlo Ramoino

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