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Attualità | 29 novembre 2020, 10:14

La Fiaba della Domenica: "Mamma cicogna"

La gioia e il desiderio di donare la vita... Ma anche le ansie che ciò può comportare

La Fiaba della Domenica: "Mamma cicogna"

Nei sogni di ragazza, si sa, nei meandri più reconditi e inesplorati dell’animo di femmina, si sa, nel più aleatorio anelito, ma radicato e perenne, di ogni speranza rosa, si sa, vi è un vanto, un orgoglio, una speme, un seme, un desiderio, una paura, una consapevolezza, un coacervo immane di sensazioni contrastanti e di sentimenti potenti che si reifica in un’immagine sola: dare alla luce.

Donare la vita, ecco il compito messianico, ecco la differenza che turba il maschio e ne popola le paure, ecco la stigmata dolorosa, ecco il carisma meraviglioso, ecco il segno che porta il futuro e che condiziona ogni uomo dal nascere da donna..

Orbene, Maria, una giovane e rosea cicogna bella come il sole che, illuminandola in volo, le sorrideva bonario in lei rispecchiandosi, con la pelle di pesca come un eterno neonato, con la giovialità che le derivava dalle sue nobili origini e dal suo saper vivere da povera con i poveri nel cuore, come tutte le giovani femmine teneva nel cuore la recondita immagine: “ un giorno sarò madre” ,si ripeteva nei momenti di gioia per accrescerne il vivido stimolo, “un giorno darò la vita”, si ripeteva nei momenti di tristezza per godere il sollievo.

Proprio come tutte le giovani femmine, o quasi.

Anche Carolina la pecora sognava il suo futuro piccino, arrovellandosi per cercare una via per non farne una vittima sacrificale, paventando la Pasqua, così come sognava Agnese la cavalla con il puledro già nel cuore e nella mente.

Come tutte le femmine del mondo, o quasi.

Quante donne vivono l’incompletezza del non essere madri pur sapendo che il mondo le accetta, quante donne si sposano senza amore per essere madri, quanti scienziati impegnano la vita per far essere madre ogni donna: molte, molti, ma questa è un’altra storia.

Nella nostra, di storia, Maria la Cicogna era certa di divenire madre, di essere madre, di essere nata per fare la madre.

E con questa certezza cresceva e, già da piccola, ogni animaletto, ogni cucciolo, ogni bimbo di Parma godeva delle sue attenzioni di madre in potenza.

Come quando le spighe del grano ondeggiano al vento, tenere e verdi, delicate e vulnerabili, promettendo la forza dei chicchi e la sicurezza del pane, come quando la mamma iniziava a leggere una fiaba a noi piccini, promettendo insolite ansie, come quando un buon medico, fatta la diagnosi fausta, ti toglie dal dilemma del baratro, promettendo cure risolutive, come quando la burrasca del mare, procella di paura e di tenebra, al suo spegnersi, promette spiragli di luce e pescato abbondante, come quando il sudore del contadino, elicitato dal paziente e ricurvo lavoro, promette un lussureggiante raccolto, così, nello stesso modo, Maria fremeva nell’attesa di donare la luce, di portare la vita, di aprire se stessa ai germogli futuri, attendendo che il suo corpo ricevesse il dono più grande.

Ma si accorse che non bastava.

Quanti figli avrebbe potuto donare alla vita?

Chi sa, molti, pochi, non sarebbe dipeso da lei, non solo da lei, dal fato, dal superiore disegno che assegna a ciascuno di noi il portachiavi, ma non la chiave della nostra vita.

E lei voleva la chiave.

E trovò la strada maestra per forgiare la chiave.

Divenne levatrice, come si diceva una volta, con l’etimo nel verbo levare, levare dal grembo materno quella calda e bagnata urgenza che si chiama nuova vita, quel vagito ancestrale che è l’archetipo di ognuno di noi.

Studiò con la passione di sempre, imparò le tecniche del dare alla luce, le levò dal suo cuore perché era lì che erano racchiuse e si propose al mondo con la radiosità di una sorgente di luce.

E venne inviata a Corniglio.

Corniglio è il paese di Angiolina la postina, il “piccolo e sperduto borgo tra i monti ove la quiete del campanile della chiesa è turbata solo, a tratti, dalle campane del campanile della chiesa”, “ove il tremore verde dell’erba alta disturbata dal vento lo si può sentire a distanza”, “ove l’azzurro terso del cielo d’estate si fonde e si mescola agli azzurri pensieri degli abitanti”.

Ma Corniglio “è famoso anche per i suoi rigidi inverni, quando una fitta coltre di neve ricopriva ogni cosa e ogni luogo, ghiacciando persino l’aria e i tratturi, e agghiacciando tutti coloro che dovevano avventurarsi a piedi, a zampe o in volo per i ripidi sentieri del territorio”.

E Maria la Cicogna cominciò, epicamente, stoicamente, gioiosamente a far dare alla luce, a portare la luce, a donare la luce, sciogliendo la galaverna, il ghiaccio sui sentieri, il gelo nei cuori con il suo solare sorriso.

Sempre pronta a ogni ora del giorno e della notte, pronta in un baleno, vigile e gioiosa anche nei parti più difficili, anche nelle situazioni più tese, anche quando l’acqua calda e un panno erano gli unici disinfettanti e le parole gli unici anestetici.

Ogni animale, ogni umano, non appena i segni di un concepimento erano evidenti, ricorreva a Maria, ne prenotava l’aiuto contando i giorni e le lune, ne ambiva il conforto, ne mutuava il coraggio.

E poi la notte, perché, è risaputo, i piccolini amano vedere la luce la notte, lei dormiva praticamente seduta e vestita, con la borsa pronta e in un lampo volava alla casa in attesa.

E quando il tempo era così proibitivo che il volo era impossibile e il rischio di far gelare le ali e di non giungere in tempo per donare la luce troppo incombente, ecco divenire protagonisti i mariti che, a dorso di mulo se umani o a briglia sciolta se animali da stalla, portavano la Cicogna Maria alla dolce destinazione.

E i mariti di un tempo! Fuori dalla stanza dell’evento, col fiasco di vino in mano sperando che fosse un bel maschio, patetici comprimari e portavoce del potere. Ma felici di portare Maria al talamo nuziale, di portare il sole nella propria dimora, di accettare anche una femmina nuova, purché fatta nascere da Maria.

Ogni famiglia era protagonista, ogni famiglia era speciale per Maria.

Non esistevano né freddo, né neve, né ghiaccio, né calura, né stanchezza, né perigli, né briganti per fermare i defatiganti voli di Maria per le lande cornigliesi.

E Marra, e Sesta, e Mossale, e Miano, e Staiola, e Sivizzo, e Bosco, e Petrignacola, e Beduzzo, e Agna e così via tutti i borghi e i paesi venivano visitati dalla luce della Cicogna Maria e poi dai piccoli nati che dalla sua luce prendevano la luce.

E come Angiolina la postina, quante volte rischiò di non farcela: se la furia del gelido vento la spingeva lontano, Maria cantava e cantando si avvicinava alla meta che già percepiva il suo canto materno, se il ghiaccio rendeva di pietra ogni luogo, il suo sorriso ne scioglieva i cristalli, se il sonno rischiava di vincerla, l’idea del nascituro risvegliava in lei reconditi aneliti e ansie celate.

E la riempivano di doni, e lei accettava quei doni, si caricava all’inverosimile di doni per portarli tutti ai bisognosi.

E se il padre della piccola Erminia le donava due spongate, ecco che lei ne assaporava il profumo e le portava al reietto Claudio, l’uomo del bosco, se il formaggio era copiosamente a lei rivolto, lei lo annodava in un telo per i nove fratellini a cui il fulmine aveva stroncato il papà.

Le fontane, le numerose fontane di Corniglio, con le loro acque cristalline e sorgive erano le uniche sue soste: quella in piazza, quella in Via Roma, la Lumiera, la Gaetana, ecco la sue fontane, ove Maria, dissetandosi, ritornava più vigorosa e accogliente di prima, ove Maria, spegnendo la sete annegava l’angoscia di poter dar poco a un mondo che tanto abbisognava. Perché lei, la Cicogna Maria, era mater populis, era madre per antonomasia e i problemi dei “figli”, i problemi degli altri erano i suoi problemi.

Era come se il dare la luce al momento iniziale della vita non le bastasse, era come se questa luce la volesse donare per tutto l’arco di vita.

E centrò la sua attenzione sulla paura.

Concentrò tutte le sue forze a combattere la paura.

Paura della gestante a cui le acide anziane avevano detto che aveva il bacino troppo stretto, di quella a cui era stato predetto un parto plurimo, paura del dolore, di non essere all’altezza, di non vincere il pudore, di non saper fare la madre, di non esser più moglie, paura di non avere più pane e polenta, paura di avere solo castagne, paura di non poter più sfacchinare e massacrarsi nei campi, paura del domani.

E per tutte e per tutti la Cicogna Maria aveva parole, scienza, coscienza, pane, polenta, castagne e soprattutto Amore.

E poi l’Amore di Maria ritornò a Parma, discese dalla montagna alla pianura, senza mutare, senza scomporsi, anzi più maturo, più intrepido e più deciso che mai nella frenesia della città ove i poveri privi di tutto, con il capofamiglia defedato dall’inedia della mancanza di lavoro o derelitto nel suo paradiso alcolemico, attendevano la levatrice come una “alleviatrice”, come colei che faceva sbocciare la vita e con questa una nuova speranza di affrancamento dalla sventura che troppo già aveva segnato e scavato quei volti.

E con l’ Amore di sempre anche lei divenne madre con l’amato marito: due piccini che la fecero sdraiare nel parto, in quel parto a lei così caro e così partecipato con le altre femmine.

Ed è con questo Amore che ancora oggi la si ricorda: tutti coloro che l’hanno conosciuta ne hanno tramandato la memoria che, imperitura, solca gli anni come lei solcava i sentieri e i cieli.

La fiaba è tratta da: "Le fiabe per... Vincere la paura", di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra, edito da Franco Angeli.

GLI AUTORI:

Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.

Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Associazione Pietra Filosofale

L’Organizzazione persegue, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante l’esercizio, in via esclusiva o principale, delle seguenti attività di interesse generale ex art. 5 del D. Lgs. 117/2017:

d) educazione, istruzione e formazione professionale, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53, e successive modificazioni, nonché le attività culturali di interesse sociale con finalità educativa;

i) organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale di cui al presente articolo;

k) organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso;

In concreto l’associazione, già costituita di fatto dal 27 gennaio 2016 e che ha ideato e avviato il concorso letterario Pietra Filosofale di concerto con l'amministrazione comunale, intende proporsi come soggetto facilitatore, promuovendo e stimolando proposte di cultura, arte e spettacolo sul territorio, organizzazione di eventi culturali e/o festival, ideazione e promozione di iniziative culturali anche in ambito nazionale, costruzione, recupero e gestione di nuovi spazi adibiti a luoghi di Cultura Permanente, anche all’interno di siti oggetto di riqualificazione e/o trasformazione quali ad esempio l’ex Cantiere Navale di Pietra Ligure, come già attuato nel 2018 presso la Biblioteca Civica di Pietra Ligure, ove ha curato un percorso specifico di incontri dedicati alla salute e al benessere attraverso il progetto Il sogno in cantiere": il sogno, in onore e ricordo del cantiere navale che un tempo a Pietra Ligure ha dato vita a tante navi che sono andate nel mondo, vuole ritrovare nel “Cantiere” il luogo di cultura permanente dove poter trascorrere un tempo dedicato al pensiero del cuore, per nutrire l'anima con letture, scrittura creativa, musica, conferenze, mostre.

La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.

L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.

«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman

La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)

Pedagogia della fiaba

La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.

"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli). 

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