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Attualità | 25 luglio 2021, 14:00

La Fiaba della domenica: "I leprotti insicuri"

La storia di mamma Lepre e dei suoi due leprottini Bibò e Birò

La Fiaba della domenica: "I leprotti insicuri"

Mamma Lepre e i suoi due leprottini, Bibò e Birò, vivevano nella casa tra le radici della Grande Quercia secolare situata proprio al limitare del Boscoscuro.

Mamma Lepre aveva sempre cercato di educare e far crescere i suoi leprotti nel rispetto delle regole, ma soprattutto di tutti gli animali del bosco, in particolare fornendo loro un esempio e parole costanti di rispetto e di amore per gli anziani, i malati, i più piccoli. Certo non era facile tirare su i suoi leprotti: Mamma Lepre, da sola, doveva lavorare, spesso con orari poco piacevoli, occuparsi delle faccende domestiche e curare ogni aspetto di crescita di Bibò e Birò, dalla scuola alla salute, dalle feste di compleanno ai dissapori con gli altri leprotti e tra loro stessi.

Mamma Lepre era molto affaticata, preoccupata e spesso triste e sola, ma cercava, per i suoi figli, di apparire serena, sicura quando invece serenità e sicurezza erano sensazioni da tempo lontane da lei.

Però, Mamma Lepre era fiera: fiera del comportamento dei suoi figli, dei loro risultati scolastici, di essere riuscita a educarli all’amore e al rispetto, anche se, spesso, temeva di averli resi troppo fragili in un Boscoscuro sempre più preda di egoismo e sopraffazione.

L’orgoglio di Mamma Lepre era sicuramente ben motivato e ben riposto circa il modo di comportarsi e l’educazione di Bibò e Birò; la sicurezza emotiva dei due leprotti, però, era un’altra faccenda. Essi, infatti, erano costretti dall’organizzazione familiare a stare spesso soli, a scaldarsi il cibo, a farsi coraggio l’un l’altro quando la mamma di notte lavorava e ogni rumore appariva ai leprotti terrificante.

Uno scricchiolio provocato dal vento evocava fantasmi oscuri, un fischio del barbagianni spaventava terribilmente, apparendo il verso di un mostro sconosciuto.

E poi nessuno dei due osava dirlo all’altro per paura di apparire una femminuccia, ma la paura più grande era quella che la mamma non tornasse più, o vittima di qualche cattivo predatore, prima di tutti l’uomo, o peggio ancora, stanca delle fatiche quotidiane, decisa a cambiare vita, abbandonando i leprotti al loro destino.

Questo pensiero era come un tarlo nella mente di Bibò e Birò, sempre presente, ma sempre sopito, tenuto da ciascuno di essi nell’angolo più remoto della loro mente, in quel piccolo spazio che noi tutti abbiamo, accessibile solo da noi, a volte neppure alla nostra coscienza, ma solo grazie alla via maestra del sogno.

Spesso i due leprotti sognavano sostanzialmente in maniera identica di essere abbandonati, lasciati soli, di trovarsi in balia di un mostro, di una strega o di un orco, o di trovarsi da soli in mezzo a un mare tempestoso.

Al risveglio, uno dei due a turno più coraggioso, intavolava il discorso di “che cosa hai sognato?” e così si liberavano, finendo invariabilmente a prendersi in giro e a spingersi per gioco, allontanando i fantasmi della notte e ritrovandosi uniti più che mai nel loro stupendo vincolo fraterno.

Ed era proprio questo l’elemento che rassicurava Mamma Lepre: Bibò e Birò erano molto uniti e lei poteva contare su questa unione quando, tristemente, li lasciava soli, di notte e di giorno, per recarsi al lavoro e leggeva nei loro occhi l’inquietudine e la voglia di tenerezza e di conforto che solo la presenza della mamma può donare.

Ma il ritmo della vita era incalzante, bisognava lavorare e Mamma Lepre confidava nel vincolo tra i due fratellini.

I compiti insieme, i giochi insieme, la tivù insieme, i pasti insieme, tutto ciò forniva ai leprotti e alla mamma sicurezza: ciascuno dei tre trovava la ragione di vita e la legittimazione allo stato delle cose proprio in questa unione fraterna.

Quando la mamma era libera dal lavoro era poi una vera gioia: i leprotti l’aiutavano molto nelle faccende domestiche, facevano la spesa con lei e passeggiavano a lungo per i sentieri di Boscoscuro, andando a trovare amici e conoscenti.

Va detto anche che Mamma Lepre aveva rinunciato alla sua passione per il canto: non poteva certo sacrificare il tempo, già scarso, da dedicare ai suoi figli per seguire il coro che frequentava prima di sposarsi!

Ma ora i due leprotti volevano farle una sorpresa: consentirle di seguire nuovamente la sua passione! Loro l’avrebbero accompagnata alle prove del coro!

Ma proprio nel massimo dell’unione di intenti e di sentimenti tra madre e figli, come una squadra di calcio che nel momento di gioco migliore e di massimo impegno subisce un goal che taglia le gambe, così un fulmine a ciel sereno spezzò quell’equilibrio e quelle certezze così faticosamente raggiunti.

Bibò, da un po’ di tempo, era pallido, emaciato e un po’ smagrito: la mamma, preoccupata, lo fece subito visitare dalla dottoressa Civetta la quale tranquillizzò Mamma Lepre e prescrisse vitamine e calcio, con la frase tipica “Bibò sta crescendo, non è nulla!”.

Però Mamma lepre in cuor suo, sentiva che qualcosa non andava.

Bibò, da sempre gran mangione molto più di Birò, era diventato inappetente, svogliato, aveva spesso la tosse.

Sora Volpe, bestia di grande esperienza, consigliò a Mamma Lepre di portare Bibò dal Topo Psicologo: sicuramente Bibò soffriva per crescere senza un padre!

Inutile dire che i sensi di colpa, da sempre latenti in Mamma Lepre, riaffiorarono prepotentemente: Bibò fu portato da Topo Psicologo che iniziò una serie di colloqui con il leprotto.

Ma dopo un certo numero di sedute, senza alcun risultato visibile, Bibò prese a tossire sempre più e cominciò a essere febbricitante.

Ogni giorno Mamma Lepre passava sempre più tempo con Bibò, che nel frattempo era curato dalla dottoressa Civetta, mentre Birò, che era divenuto “l’ometto” di casa, faceva la spesa, accudiva la casa quando la mamma era al lavoro, badava al fratello che deperiva sempre più.

Lo stato di salute di Bibò cominciò a preoccupare sempre più la dottoressa Civetta che, sentendosi impotente e vedendo vani tutti i suoi sforzi, propose fermamente e scientemente il ricovero di Bibò all’ospedale di Boscoscuro.

Si può immaginare lo sconforto di Mamma Lepre: lei non era pronta a quest’ulteriore distacco della sua vita, lei non poteva pensare al suo piccolo Bibò oggetto di terapie dolorose, da solo, in un letto d’ospedale senza nessuno che lo coccolasse, circondato da volti estranei e rassicurato da nessuno.

Il lavoro, il canto, la casa, l’altro figlio Birò erano, come per magia spariti dalla sua mente: Mamma Lepre, ogni minuto, pensava solo e unicamente al povero Bibò che stava per entrare in ospedale.

Per fortuna Buegrasso, primario dell’ospedale per cuccioli di Boscoscuro, era un primario illuminato: da tempo aveva concesso alle mamme di dormire in ospedale con i loro piccoli, aveva introdotto la scuola in ospedale e organizzava tanti avvenimenti gioiosi per allietare la degenza in ospedale per i piccoli del bosco.

Bibò nel frattempo era come annientato.

Come avrebbe fatto in ospedale senza la mamma e senza il fratello?

Che cosa gli avrebbero fatto?

Quali medicine cattive avrebbe dovuto sorbire?

Quante punture avrebbe dovuto sopportare?

Per fortuna che appena entrato in ospedale venne informato da una gentile infermiera che la mamma avrebbe potuto stare praticamente sempre con lui.

Rasserenato, Bibò riprese a sorridere e così riprese a sorridere anche la mamma, informata anche dal professore Buegrasso che la malattia di Bibò sarebbe stata lunga, ma curabile, che sarebbe stata “noiosa”, ma avrebbe lasciato il leprotto più forte di prima.

E così iniziò la lunga ospedalizzazione del leprotto: la mamma riuscì a trovare un accordo col datore di lavoro per non essere licenziata e cominciò a stare giorno e notte, notte e giorno con Bibò.

Questi soffriva molto e la mamma soffriva con lui, disperazione e speranza si alternavano in mamma e figlio, l’unico pensiero era di seguire le raccomandazioni dei medici.

Mamma Lepre sentì tornare tutte le paure di quando, piccolina, temeva per la salute e per la vita dei suoi genitori, sentì affiorare in lei tutta l’insicurezza che, normalmente, teneva a bada per l’amore dei figli e per le convenienze sociali.

E Birò? Lui c’era! Lui era il sano! Lui era il forte! Da lui ci si aspettava tutto!

Lui non doveva chiedere nulla! Birò andava a scuola, faceva i compiti, badava alla casa, si faceva da mangiare, si lavava i vestiti, consolava la mamma nei rari momenti in cui ella tornava a casa, consolava il fratello quando si recava a trovarlo in ospedale.

La sua esistenza era come quella di un bellissimo fiore sul quale si può contare ogni giorno per allietarci le giornate…. Ma anche un bellissimo fiore ha bisogno di essere annaffiato altrimenti appassisce e muore…

Ed era proprio quello che stava accadendo a Birò!

Egli, troppo piccolo per le enormi responsabilità che gli erano state affidate, passava notti insonni di paure e di agitazione abbracciato al suo cuscino, unico in grado di infondergli un po’ di calore.

Anche le insegnanti non si erano accorte di nulla, del terribile momento di abbandono che stava vivendo Birò: infatti, paradossalmente Birò a scuola era migliorato, ancora più coscienzioso e studioso di prima!

La madre, quando tornava a casa dall’ospedale, raccontava a Birò dei progressi o dei regressi di Bibò e chiedeva a lui che cosa ne pensasse.

Birò, ometto come sempre e più di sempre, si guardava bene dal comunicare in qualche modo il suo disagio e il suo dolore e aveva sempre una parola di conforto per la madre. Ma nel cuore aveva la morte, la solitudine, la disperazione.

Sentiva anche di non farcela più, ma non poteva, non doveva deludere la mamma e il fratello.

Per fortuna, la Provvidenza che tutto vede prese la forma della Vecchia Quercia che ospitava la casa dei leprotti.

La Vecchia Quercia, che vedeva ogni giorno Birò e che ne ascoltava i pianti e i monologhi notturni, una sera decise di intervenire: non era più accettabile che un leprotto così buono come Birò soffrisse così tanto senza nessuno che lo confortasse o, peggio, senza che nessuno se ne accorgesse.

Così, quando Mamma Lepre arrivò a casa dall’ospedale per riposarsi un po’, per poi tornare a dormire in ospedale, mentre, assente come sempre quando era a casa, stava per aprire la porta, la Vecchia Quercia fece sentire il suo vocione!

Mamma Lepre” – disse la Quercia – “Tu stai curando un figlio per farlo guarire, ma non ti accorgi dell’altro che si sta ammalando ben più gravemente!”.

Mamma Lepre, subito addirittura un po’ contrariata, ascoltò poi il lungo discorso che la Vecchia Quercia aveva in serbo per lei.

E la Quercia parlò, parlò, parlò per ore, narrando a Mamma Lepre tutta la solitudine e la disperazione di Birò, sempre vissute nella più grande dignità e in silenzio.

Mamma Lepre pianse, pianse con forti singhiozzi e più piangeva e più capiva e più capiva e più si rammaricava.

All’improvviso tutto le fu chiaro: avrebbe superato ogni vecchio rancore, avrebbe chiesto aiuto a sua madre, Nonna Lepre, cui non parlava da anni, avrebbe chiesto alla propria madre di stare all’ospedale con Bibò, certa di fare la felicità sia di Bibò sia della Nonna e, da lì in poi, si sarebbe dedicata anche e soprattutto al piccolo eroe Birò, in attesa che il fratello guarito tornasse a casa e con la certezza di avere dei figli stupendi, ma soprattutto con la gioia dettata dalla consapevolezza che la sua mamma, Nonna Lepre, avrebbe potuto accarezzarle di nuovo i capelli come quando era piccola.

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