Ex dirigente del gruppo Montedison, Enrico Albertazzi varcherà fra pochi giorni la soglia dei 95 anni, ma appartiene al club dei temerari che si sono dimenticati di invecchiare.
«Credo che un angelo custode mi abbia sempre protetto – racconta – pensi che nel ’45 ad Albissola, all’altezza dei bagni Miramare, c’era un piccolo molo e, davanti al molo, il governo aveva installato in mare una serie di ferri appuntiti per scongiurare un eventuale sbarco alleato. Io avevo 15 anni e, con un gruppo di amici, per farci belli con le ragazze prendevamo la rincorsa lungo il molo per tuffarci, “volando” oltre quei rostri micidiali.»
L’angelo custode ha sicuramente protetto Albertazzi ottant’anni fa, l’8 maggio 1945, quando a Savona una micidiale esplosione distrusse una galleria del treno che, nel quartiere Valloria, era stata trasformata dai nazifascisti in un deposito di armi. L’esplosione uccise 86 persone e Albertazzi, che sino a pochi minuti prima era con loro, è a tutti gli effetti un sopravvissuto.
«All’epoca avevo 15 anni – racconta – frequentavo la scuola e i giochi di noi ragazzi erano giochi di guerra. Andavamo a cercare le schegge delle granate, le collezionavamo, ce le scambiavamo. C’era la volontà di fare qualcosa che simulasse la guerra…»
D – Non vi erano bastati cinque anni di guerra non simulata? Di guerra mondiale?
R – «Cosa vuole che le dica? C’era questa voglia di imitare chi faceva la guerra, credo spiegabile con l’incoscienza di quell’età. Pensi che facevamo artigianalmente la polvere nera. Al carbone aggiungevamo lo zolfo, che restava sulle banchine quando scaricavano le navi, e per il potassio facevamo così: compravamo in farmacia delle compresse di clorato di potassio per la gola e, dopo averle polverizzate, le mescolavamo con zolfo e carbone per fare dei petardi rudimentali.
A Savona si sapeva che c’erano diversi depositi di armi e alcune caserme incustodite, come quella di San Giacomo. Quando ci entravamo, trovavamo moltissime armi abbandonate, soprattutto del battaglione San Marco. Avremmo potuto prendere pistole e fucili, ma sarebbe stato difficile portarli in giro, così ci siamo impadroniti delle bombe a mano. Eravamo un gruppo di incoscienti: ci siamo messi in tasca le bombe e il giorno dopo abbiamo raggiunto un campo alla periferia di Legino, lontano dall’abitato.
Lì tiravamo la sicura e le lanciavamo. Solo una è esplosa e così noi siamo andati – guardi l’incoscienza! – persino a recuperare quelle inesplose.»
D – Com’è finito alla galleria dell’esplosione?
«A Savona era corsa voce che la galleria di Valloria fosse piena di armi e incustodita. Si trattava soprattutto di munizioni per i grossi calibri che avrebbero dovuto difendere il porto. Così io e un mio amico, Luciano D., ci siamo detti: “Andiamo a vedere?”. Quel giorno avevamo fatto solo un’ora di scuola, perché era stato firmato l’armistizio della guerra in Europa e la scuola era in festa. Eravamo liberi e ci siamo detti: “Andiamo!”. Io avevo la cartella e Luciano i libri legati con l’elastico.
Quando siamo arrivati siamo rimasti atterriti: la galleria era un antro dantesco, piena di gente che cercava la balistite, cioè il propellente che scaglia il proiettile, ma anche il tritolo. La balistite era a forma di quadrotti o di spaghetti. Noi prendevamo dei bossoli vuoti, ci infilavamo dentro questi spaghetti di balistite, usandone uno come miccia, poi accendevamo e i bossoli partivano come razzi.
Il buio della galleria brulicava di ragazzi ma soprattutto di adulti che cercavano di recuperare soprattutto il tritolo, l’esplosivo che era nella testa dei proiettili. Erano obici molto grossi, alti sino a un metro e mezzo. Li estraevano dalle casse, li appoggiavano alla parete di roccia e, a colpi di mazza, cercavano di separare il proiettile dal bossolo e poi estrarre il tritolo dalla testa del proiettile.
Anche se avevo solo 15 anni ho capito subito che c’era un enorme pericolo, anche perché, per illuminare il buio della grotta, qualcuno usava delle torce rudimentali. Dopo pochi minuti ho detto al mio amico Luciano: “Prendiamo tutto quello che possiamo e andiamo via”.
Così riempimmo la borsa e le tasche di balistite e ci allontanammo a piedi verso il centro di Savona. All’altezza delle Funivie, a un chilometro di distanza dalla galleria, abbiamo sentito un’enorme esplosione e un vento caldo ci ha fatto perdere l’equilibrio mentre dall’alto arrivavano terra e sassi. Abbiamo capito subito che era esplosa la galleria e il nostro primo problema è stato liberarci della balistite per non essere sospettati di aver avuto qualche responsabilità nell’esplosione.»
D – Quante frustate le ha dato suo padre?
R – «Nessuna, perché non lo ha mai saputo. Non ho mai detto nulla, temendo appunto le frustate. Non l’ho detto neppure in seguito.»
D – Non siete andati a vedere cos’era successo?
R – «Ho avuto io, più tardi, la malaugurata idea di andare a vedere i corpi che erano stati raccolti nella cappella accanto al municipio. Non dimenticherò mai quella scena: c’erano due file di cadaveri, moltissimi ragazzi e tanti adulti smembrati dall’esplosione. La maggior parte di questi “recuperanti” erano pescatori o pescatori dilettanti che usavano l’esplosivo per pescare.
Sono andato più tardi a vedere la galleria quando hanno apposto la targa che ascrive la responsabilità della strage ai nazifascisti, che avevano scatenato la guerra, ma la responsabilità è stata soprattutto delle autorità in carica in quel momento, civili e militari. Sarebbe bastato mettere un piantone all’ingresso della galleria per evitare quel massacro. Erano al corrente del rischio e non hanno fatto nulla.»
Questa storia incredibile, di intuito e di fortuna, mi viene raccontata come se fosse accaduta ieri e non ottant’anni fa, ed è un’ulteriore dimostrazione del fatto che, per narrare la storia della Seconda guerra mondiale, occorrerebbe al più presto un vero archivio video, prima ancora che ponderose pubblicazioni in carta patinata e verbosi convegni in cui anche la storia della guerra e della Resistenza vengono asservite alla propaganda pacifista.







