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Attualità | 03 maggio 2020, 10:00

La Fiaba della domenica: "L'usignolo impervio"

L'ineguagliabile canto dell'usignolo come metafora dell'umana superbia

La Fiaba della domenica: "L'usignolo impervio"

Ancora tu … ma non dovevamo vederci più?”, così stava dicendo Lucilla, usignolo di bell’aspetto e di poche speranze, a Luciano, famoso e osannato usignolo sempre gonfio di petto e sempre lucido di piume .

Ma andiamo con ordine, questa storia parte da lontano, si sviluppa tra gli uccelli, in quel mondo aereo e un po’ etereo, dove l’azzurro del cielo è quotidiano accompagnamento laddove per gli umani è speranza nella clemenza del sole, dove il sole è vicino di casa mentre per gli umani è inavvicinabile stella, dove la stella della notte saluta con pudica luce ove per gli umani è devoto arrembaggio verso la speranza di un desiderio.

Gli uccelli, che riempiendo d’aria le sacche del cuore e librandosi in volo con le ali distese, possono godere di prospettive divine, che posandosi in riposo su guglie e su picchi, possono cogliere attimi di vita altrimenti segreti, gli uccelli che con il loro migrare possono assaporare tutti i canti del mondo.

E tra gli uccelli, gli usignoli, deliziosi cantori della primavera, sempreverdi corali dell’eterno ritorno.

D’altronde l’uomo che, con la sua superiore intelligenza, sa ricondurre a natura ogni sprazzo d’immenso, ha da tempo coniato la frase “canta come un usignolo”, così come “è forte come un toro”, “è viscido come un serpente”, “è veloce come una gazzella”, dimenticando che il superiore disegno ha reso specifico ogni essere con il suo canto, la sua forza, la sua ferocia, il suo tempo e il suo spazio di vita.

Orbene Luciano era un uccello, un usignolo.

Ma Luciano cantava così bene, sin dal suo emergere dal guscio, ma così bene, la sua voce era così cristallina, il suo andante così adamantino, che lasciava senza fiato tutti coloro che lo ascoltavano.

Era come se la natura avesse condensato in Luciano la voce del bosco, l’urlo della cascata, l’armonia del fiume, la cadenza della risacca marina, era come se in lui vi fossero una semina di sicura raccolta, una vigna matura, il rigoglio di un frutteto nel sole, una storia d’amore profondo, le parole di un padre, il silenzio della neve senza vento, l’estiva calura punteggiata dal frinire delle cicale, il vagito gioioso di un bimbo al seno della madre.

I suoi genitori erano felici.

Stranamente Nilla, la madre, aveva deposto quella volta un uovo solitario, uno solo.

Che attesa, che aspettative su quell’uovo da parte di Nilla e di Oscar, il marito! E di tutto il parentado! E degli amici!

Un uovo solitario era presagio di solide e solitarie virtù. Un uovo solitario doveva essere tutelato e atteso con particolare e inconsueta attenzione, un uovo solo doveva essere al centro di unici e inconsueti interessi.

E così fu.

Il riguardo verso quell’uovo solingo fu religioso e liturgico, il batticuore verso i predoni del mondo fu inconsueto e tachicardico, la gioia alla schiusa fu unica e irripetibile.

E iniziò l’inconscio, muto, inconsapevole calvario di Luciano.

E sì, perché come se nell’unico uovo fosse rinchiuso tutto un destino, Luciano cominciò a sentirsi unico e irripetibile, e fin qui nulla di male, ogni creatura rispecchia unicamente se stessa e si discosta da ogni altra, ma unico nel senso di migliore, di superiore, di sprezzante distinguo dalla becera massa degli altri usignoli.

Lui era diverso, si sentiva diverso, palesava a tutti la sua diversità con sdegno e superbia, poneva se stesso, anima e piume, al di sopra , al di fuori, al di là, altrove.

E in effetti, aveva qualcosa di più … ma solo nella voce, nella sua ineguagliabile e irraggiungibile voce, quella voce da “usignolo” che bastava apparisse nel frastuono del mondo per stagliarsi superba con note di delizia.

Lui cantava da incanto.

Eppure tutti i suoi compagni usignoli erano ben intonati, sapevano tessere con maestria le quotidiane lodi al Creato e al suo Artefice, sapevano creare magiche armonie; ma Luciano incantava, aveva una potenza espressiva, un afflato tenorile, una musicalità immediata che lasciavano tutti stupiti e affascinati.

E ciò da subito, dalla prima schiusa dell’uovo, da quando il pigolio ansante e ossequioso di chi vede la luce si era rivelato un incedere sublime verso le vette del canto.

Così, alla gioia del vedere concrete le speranze di una nascita dall’unico uovo, nei genitori di Luciano si unì l’orgoglio di aver generato un eroe, la quintessenza del bel canto, l’usignolo per eccellenza che avrebbe cantato il mondo al mondo, che avrebbe redento tutti i peccati della famiglia, che avrebbe affrancato i genitori da ansie, paure, solitudini e complessi, che avrebbe determinato per sempre la rivalsa agli occhi del mondo della famiglia Rauchini, questo il triste cognome, per degli usignoli, di quella famiglia.

Luciano era eccelso, ma impervio, Luciano era sublime, ma scostante, era come quegli umani e quelle umane che gli uomini chiamano “prime donne”, che fanno le bizze, che insultano, picchiano, non salutano, non rispondono, non sorridono, si isolano, convinti che il contatto con altri alieni in loro la loro beltà, sicuri che gli altri debbano essere verso di loro solo strumenti osannanti e pronti a dare la vita.

A Luciano si doveva tutto, lui non doveva nulla a nessuno, lui era l’artefice del bel canto, la voce, la luce, gli altri godevano pienamente delle sue uniche virtù, che potevano volere di più dalla vita? Lui poteva disporre degli altri a suo piacimento e guai a non scattare, a non adempiere, a proporre anche solo un’idea!

E come Narciso attirava le Eco, Luciano mieteva proseliti.

A scuola era il mito intoccabile degli insegnanti: a lui tutto era concesso, poteva non studiare, picchiare i compagni, rubare, rovinare, tanto a lui tutto era perdonato, condonato, anzi, sembrava quasi gli si dovessero porgere scuse per averlo fatto arrabbiare. Un simile usignolo, luce degli occhi dei suoi genitori, era destinato a un grande destino… di solitudine.

Nessuno in famiglia pareva capire questo triste presagio, accecati tutti dal balenio della rivalsa familiare, tutti presi dallo scorgere a portata di mano fama, ricchezza, agi e stima del mondo.

Se un padre protestava per la protervia di Luciano nei confronti del proprio figlio, subito veniva minacciato dai Rauchini e ricondotto a umili ragioni, se un compagno di scuola provava a protestare con gli insegnanti per le vessazioni di Luciano immediatamente veniva zittito come incapace di pagare lo scotto a cotanto genio, se chiunque osasse pensare di aver subito un torto osava anche esternarlo alla famiglia di Luciano, in malo modo veniva respinto nella propria ignoranza e nella propria pochezza.

Così cresceva Luciano, tra un plauso e un osanna, tra un vizio e un’ipocrisia, tra una insana copertura e una ancora più insana impunità, tra la dolcezza del canto e l’agonia della solitudine.

Ma c’era Lucilla. Lucilla era una sua compagna di scuola, con la croce rossa scolpita sul petto, da sempre innamorata di Luciano, ma di un altro Luciano, non di quello reale, bensì di quello che lei immaginava si celasse dietro il despota barbaro, dietro il satrapo bieco e sibilante, racchiuso nel più profondo del cuore di quel bellimbusto tronfio e trionfante.

E pian piano iniziò a demolire la corazza, ma era un’opera lunga e difficile.

Ma Lucilla era dotata di pazienza, di molta pazienza, oltre che di altre graziose virtù.

Ogni volta che Luciano palesava tracotanza, Lucilla lo portava a riflettere, ogni volta che in lui vi erano biechi sentimenti a prevalere, lei sorrideva e scioglieva, goccia dopo goccia, attimo dopo attimo, soffio dopo soffio.

Nel frattempo Luciano cresceva: la sua voce sublime diveniva sempre più un’attrazione internazionale, fuori già dal mondo degli usignoli, già in quello degli uccelli, e ora anche nel più vasto consesso vivente.

Ma, col crescere della fama e degli onori, cresceva anche il disprezzo di Luciano verso i miseri adulatori, verso la becera massa priva della sua voce, verso il gretto popolino che poteva solo plaudirlo.

E cresceva anche la sua solitudine.

Fuori dall’apparato liturgico, dai teatri, dalle feste, dai giornali, dalle televisioni, egli era unico quanto solo, senza amici che non avessero interesse a fruire di lui per gioire del suo canto o per sfruttarne la fama, millantandone conoscenza e amicizia, o peggio per godere dei frutti del suo apparire e del suo essere un mito.

Non aveva nessuno con cui parlare, se parlava con qualcuno parlava di sé, di quanto fosse unico, superiore, supremo, ineguagliabile.

Non aveva nessuno con cui aprirsi, a cui confidare le sue pene: non poteva avere pene, lui, il solo, l’unico, il più grande!

Non aveva nessuno da cui farsi curare se stava male nel fisico e nell’anima, se non degli acuti mercenari dalle fredde mani e dal tempo contato.

Non aveva nessuno di cui prendersi cura.

Come avrebbe potuto lui, il mito, scendere al livello di qualcun altro e occuparsi delle miserie di costui?

Lui era fulgido nel sole e algido nel cuore, lui era etereo nell’aria ed effimero nella presenza.

Lui era nato dall’unico uovo ed era cresciuto per la rivalsa dalla raucedine della propria famiglia.

Con lui la famiglia ritrovava la dignità offuscata, anzi con lui la famiglia assurgeva a vette inconsuete e impensate, sanando torti antichi e prevenendo mediocrità future.

E Lucilla? Con la crescita di Luciano si era ritirata in buon ordine, si era come accovacciata in disparte, era come congelata negli atti e nei sensi, disperando, forse no, temendo di non essere in grado di far prevalere la croce rossa sul frastuono del mondo, la riflessione sulla superficialità, il sentimento sulla presunzione, il perdono sulla protervia, il bene sul male.

Tanto Luciano era sempre via: ora nella Città dei Macachi, ora al Teatro degli Scorpioni, ora alla discoteca Scolopendra, ora alla festa del Biscione.

Non vi era più tempo per lui nel mondo degli usignoli, aveva, in quel mondo, già incantato e offeso tutti, già affascinato e vituperato tutti, già plagiato e disprezzato tutti.

Andava altrove… e Lucilla lo salutò con un lieve battito d’ali.

Ma si affidò al sogno. A un sogno messaggero e ambasciatore, latore di speranza e di cambiamento.

Una sera, triste, solo e tracotante più che mai, Luciano, dopo l’ennesimo trionfo nella villa dei Bradipi, dopo aver firmato centinaia di autografi ed essere sfuggito a forza all’assedio dei fans osannanti, cercava un chimico sonno nella camera più lussuosa messa a sua disposizione.

Tra pastiglie, superalcolici, adrenalina, vi era spazio anche per l’ennesimo pensiero malevolo: chissà che faranno quegli stupidi usignoli al mio paese? Chissà quante fans usignole dormiranno stanotte con la mia foto sotto al cuscino! E Lucilla? Anche lei …

E prevalse la chimica, si addormentò … e dopo poco sognò.

Era vecchio, stanco e intorpidito, ma con le piume sempre belle, ma come mai così magro? E perché quella sciarpa sul collo? Oh Dio! E la voce? Perché non riusciva a cantare, non riusciva neppure a parlare? Ed era solo, si rivolgeva agli uccelli intorno a lui, ma nessuno pareva vederlo, nessuno si accorgeva di lui, era come di vetro, trasparente, non riusciva a fermare nessuno vicino a lui, tutti volavano via senza degnarlo di un cenno.

Paura, terrore, angoscia, impotenza!

Si svegliò di colpo, per fortuna era solo un sogno, lui era lì, bello, giovane e aitante, solo madido di sudore.

Ma vi era un segno nell’anima: come un marchio indelebile, un qualcosa di nuovo che gli dava inquietudine e frenesia, come se dovesse subito fare qualcosa di fondamentale.

Ma che cosa? I suoi conti bancari erano stracolmi, i suoi concerti programmati, i suoi adoratori fuori a bivaccare nell’attesa.

Eppure … e volò via, tornò d’impeto al Paese degli Usignoli, al suo paese, da Lucilla, lasciandosi dietro fama, contratti, ricchezza, applausi, con davanti agli occhi solo la ricerca dell’autenticità.

Tratto da: "Le fiabe per... affrontare la solitudine (un aiuto per grandi e piccini)", di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra, collana "Le Comete", Franco Angeli Editore. 

GLI AUTORI:

Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.

Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Associazione Pietra Filosofale

L’Organizzazione persegue, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante l’esercizio, in via esclusiva o principale, delle seguenti attività di interesse generale ex art. 5 del D. Lgs. 117/2017:

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i) organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale di cui al presente articolo;

k) organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso;

In concreto l’associazione, già costituita di fatto dal 27 gennaio 2016 e che ha ideato e avviato il concorso letterario Pietra Filosofale di concerto con l'amministrazione comunale, intende proporsi come soggetto facilitatore, promuovendo e stimolando proposte di cultura, arte e spettacolo sul territorio, organizzazione di eventi culturali e/o festival, ideazione e promozione di iniziative culturali anche in ambito nazionale, costruzione, recupero e gestione di nuovi spazi adibiti a luoghi di Cultura Permanente, anche all’interno di siti oggetto di riqualificazione e/o trasformazione quali ad esempio l’ex Cantiere Navale di Pietra Ligure, come già attuato nel 2018 presso la Biblioteca Civica di Pietra Ligure, ove ha curato un percorso specifico di incontri dedicati alla salute e al benessere attraverso il progetto Il sogno in cantiere": il sogno, in onore e ricordo del cantiere navale che un tempo a Pietra Ligure ha dato vita a tante navi che sono andate nel mondo, vuole ritrovare nel “Cantiere” il luogo di cultura permanente dove poter trascorrere un tempo dedicato al pensiero del cuore, per nutrire l'anima con letture, scrittura creativa, musica, conferenze, mostre.

La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.

L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.

«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman

La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)

Pedagogia della fiaba

La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.

 

"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli). 




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