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Attualità | 23 febbraio 2020, 09:30

La fiaba della domenica: "Asperger"

Quando un semplice "perché" può diventare una parola odiata e un ostacolo insormontabile...

La fiaba della domenica: "Asperger"

Ma che strano mondo è questo? Così pensava Asper tutte le volte che qualcuno gli rivolgeva la parola.

Attento, Asper, rischi di cadere e di farti male! Ma perché, Asper, devi aver così paura dell’aspirapolvere, in fondo è solo un elettrodomestico! Perché urli, Asper, non vedi che tutti ci guardano?

Queste erano le frasi che la mamma pronunciava praticamente ogni giorno rivolta a lui.

Ma che voleva dire la mamma? Che significavano quegli avvertimenti che per lui, nel migliore dei casi, apparivano ridicoli e che nel peggiore aumentavano il suo terrore di vivere?

E poi il papà sempre pronto a chiedergli cose che lui proprio non comprendeva.

Perché te ne stai solo soletto a guardare il soffitto e non vai a giocare al pallone?

Perché non mi rispondi quando ti chiamo?

Perché non sorridi alle battute che faccio?

Perché sei così pallido?

Perché ? Perché ? Perché ?

Era la parola che lui, Asper, odiava di più.

Come si può chiedere il perché delle cose del mondo? Come si può chiedere il perché dell’amare una rosa? Mah, lui proprio odiava il perché.

Amava il per chi, sentiva che il canto degli uccelli era per lui, per la sua mamma, per il suo papà, per chi sapeva ascoltarlo senza pretendere di saperne il perché.

Sentiva anche che lui non si vergognava se gli altri lo ascoltavano urlare, ma che si vergognava terribilmente di arrossire quando gli si chiedeva un perché.

L’essenziale è invisibile agli occhi, pensava sconsolato Asper, e l’essenziale è il respiro del mondo che lui sentiva e con il quale cercava di sintonizzare il proprio respiro.

A volte la mamma lo guardava preoccupata ansimare.

Aveva sentito il dottore parlare di asma. Ma che asma e asma! Lui si sforzava di respirare col mondo, ma, a volte, il mondo correva veloce e il respiro correva con esso e così doveva anche lui, Asper, correre a perdifiato col fiato sospeso per non perdere il ritmo di quel mondo burlone.

A volte la maestra lo scopriva assorto a muovere il capo su e giù, su e giù, su e giù e allora chiamava il dottore (che odioso il dottore!), preoccupata per il “poco sostegno” di cui Asper fruiva.

Il sostegno? Ma quale sostegno? Lui di sostegno conosceva solo quello che i fiori donano al cielo con i loro colori. Quel cielo, che conosce solo il grigio e l’azzurro, guardando i fiori dall’alto può sorridere al rosso e al giallo, può gioire del viola e del lilla, può infervorarsi del rosa e del bianco.

E quando si dondolava, come diceva la maestra, lui pensava ai delfini che guizzano nell’aria e ripiombano in mare, su e giù, su e giù.

E poi quel mare così tempestoso che lui vedeva nei sogni non era forse uguale alle tempeste che c’erano in casa? Le vite parallele e mai incrociate dei suoi genitori non erano forse dovute al suo essere strano?

Perché tutti dicevano che lui era strano.

La mamma, il papà, la sorella, i compagni di scuola, la maestra, il dottore. Oh, questo dottore quanto gli stava antipatico con quegli occhiali sul naso!

Ma se le lenti degli occhiali devono aiutare la vista, come mai il dottore guardava sempre al di sopra di esse appoggiate sul naso? Era lui lo strano, lui, Asper, o il dottore che teneva gli occhiali e guardava al di sopra? Era lui lo strano o sua sorella Carmela che chiamava al telefono “Anna” una persona con la voce da uomo?

Lui che a occhio sapeva il punto preciso nel terreno dove sarebbe nato un bel fiore o la mamma che tagliava quel fiore e lo metteva in un vaso a morire?

E poi il papà che diceva sempre “tranquillo”, “tranquilla”; ma come si faceva a stare tranquilli se si percepiva tuttaltro?

E il papà come poteva dire di stare tranquilli se nulla sapeva in quanto nulla sentiva!

Una dorata solitudine, ecco che cos’era quella di Asper.

Quando lui era assorto nei suoi pensieri e gli chiedevano a che cosa pensasse, così rispondeva: "Alla mia dorata solitudine".

E all’immancabile "poverino, e i tuoi compagni dove sono?", rispondeva "nella loro dorata solitudine!".

E arrossiva perché aveva bisogno di una pecora.

"Disegnami una pecora!" chiedeva allora Asper e l’interlocutore ogni volta "Asper burlone sei proprio simpatico!" pronunciava indietreggiando a disagio.

Ma se lui in quel momento voleva vedere una pecora, che c’era di strano? Chissà!

Il momento più terrificante era però quando la mamma passava l’aspirapolvere.

Ma come faceva a non capire che quel maledetto aggeggio, ogni volta, aspirava anche lui, aspirava lui e tutte le sue aspirazioni nel fragore tremendo del pulviscolo annoiato risvegliato per subito morire?

Ma come faceva a non capire che la laida bocca ingorda dell’aspirapolvere ingoiava pensieri e parole per comprimerli in un lurido sacchetto di carta da gettare nei rifiuti più immondi?

Lui, i suoi pensieri, la sua voce tutti ingoiati nel buco nero e ronzante, ma come poteva la mamma, la sua mamma, permettere ciò?

"Devo pulire, Asper, abbi pazienza!" diceva la mamma.

"La tua cameretta sembra un porcile!"

Pulire, pazienza, porcile tutte parole con la “p”, come psichiatra e come polvere.

Ma non sapeva la mamma che tutti saremo polvere?

Come poteva aspirare la polvere, quella polvere che magari era parte del nonno o del caro signor Alfredo, il vicino di casa, morto l’anno prima, l’unico capace di disegnarli una pecora?

E così Asper urlava, urlava a perdifiato, con terrore, con gli occhi sbarrati, con la bava alla bocca. Ma tanto l’aspirapolvere urlava di più e poi, tanto, a sua mamma il maledetto dottore aveva detto che quelle urla erano parte della stranezza di Asper, della sua malattia e di non farvi più caso.

Per fortuna c’era la sua dorata solitudine con il suo amico del cuore, il caro Perger-

Immaginario, diceva il dottore, ma immaginario era lui con i suoi immaginari occhiali sul naso e con i suoi astrusi discorsi di parole con la “s”, tra cui sindrome, stereotipie, sincopato, sentore, specialista, struttura erano quelle che usava di più, forse per fare una gara con la mamma che usava quelle con la “p”, come sappiamo.

Ebbene sì, anche Perger era immaginario, ma non per questo meno reale.

E con Perger, Asper a lungo parlava in un’intesa di sguardi, in un mondo meraviglioso, fatto di poche care cose, tutte importanti.

Ma non senza alcuna difficoltà.

Ad esempio, non tutti i semi sono buoni, questo si sa, e Perger voleva eliminare quelli di cipolla perché fanno piangere, mentre Asper, che amava piangere, avrebbe eliminato quelli di luppolo perché non sopportava l’odore della birra.

E ancora Asper, che voleva sempre la pecora, unica parola con la “p” che lui tollerasse non aveva l’amore per i cani e per i gatti, animali adorati da Perger.

Ed erano baruffe, scontri verbali, sputi e spintoni, parole con la “s” orribili come quelle del dottore che Asper urlava all’amico che gliele rimandava in un massacrante ping pong.

Ma poi la pace regnava nella dorata solitudine.

Anche perché Perger, come Asper e più di lui, odiava e temeva l’aspirapolvere e correva a nascondersi nell’orecchio destro dell’amico non appena la mamma azionava l’infernale strumento, gola profonda assassina dei migliori e dei più ignari rossori rinati nei granelli di polvere.

Tutti pensavano che lui parlasse da solo.

Poveri sciocchi! Non vedevano Perger? Non ne sentivano i fremiti? Non capivano la sua voglia di stare con lui?

Che importava, per lui Perger c’era, nella dorata solitudine, e con lui poteva urlare, litigare, gioire, scambiare opinioni, preoccuparsi dei mali del mondo, tra cui la presenza dell’aspirapolvere e l’assenza della pecora erano veramente terribili.

E poi c’erano le visioni, i miraggi, i sogni, tutto quel mondo a lui caro e a lui chiaro che tutti gli altri percepivano nero e confuso.

Se aveva sete, ecco il miraggio di una inesauribile pozza d’acqua di cristallo, se aveva freddo, ecco la visione di un camino infuocato, se aveva un sogno, ecco quel sogno apparire, di giorno o di notte, in un via vai di emozioni che lo facevano urlare, in un crescendo armonioso di colori che lo facevano vibrare, su e giù, su e giù, in un incessante delirio di chiaro e di scuro, in un mutare continuo di stati d’animo che solo a Perger sapeva descrivere con la gioia di poter arrossire senza vergogna.

E la scuola?

Il solito tran tran.

Lui sapeva leggere, ma non leggeva, lui sapeva scrivere, ma non scriveva, lui sapeva contare, eccome se sapeva contare, contava i giorni, le ore, i minuti, i secondi che gli martellavano in testa, ma non contava.

E sì, perché lo scandire dei secondi per Asper era un tormento a cui si era abituato.

Tic tac, tic tac, tic tac vi era nel suo cervello sempre e comunque, anche nel sonno che non lo ristorava.

Lo aiutava soltanto cominciare da zero per giungere a mille, per poi ricominciare da capo, contando i tic come dispari e i tac come pari.

Un giorno però la scuola organizzò una gita speciale: sarebbero andati in una nave carica di altri bambini e con questa nave avrebbero solcato il mare verso un’isola vicina alla sua città.

O capitano, o mio capitano! Ripeteva ossessivamente Asper appena salito a bordo, a bassa voce, stranamente per lui, a bassa voce.

Ma, stolti tutti, non sapevano che lui parlava con Perger?

O capitano, o mio capitano! Ripetè per l’ennesima volta.

Eccomi! Lo sorprese una voce.

Ciao Asper, sono il capitano, mi chiamo Perger …

Tratto da: "Le fiabe per... affrontare la solitudine" (Franco Angeli Editore).

GLI AUTORI:

Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.

Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Associazione Pietra Filosofale

L’Organizzazione persegue, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante l’esercizio, in via esclusiva o principale, delle seguenti attività di interesse generale ex art. 5 del D. Lgs. 117/2017:

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k) organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso;

In concreto l’associazione, già costituita di fatto dal 27 gennaio 2016 e che ha ideato e avviato il concorso letterario Pietra Filosofale di concerto con l'amministrazione comunale, intende proporsi come soggetto facilitatore, promuovendo e stimolando proposte di cultura, arte e spettacolo sul territorio, organizzazione di eventi culturali e/o festival, ideazione e promozione di iniziative culturali anche in ambito nazionale, costruzione, recupero e gestione di nuovi spazi adibiti a luoghi di Cultura Permanente, anche all’interno di siti oggetto di riqualificazione e/o trasformazione quali ad esempio l’ex Cantiere Navale di Pietra Ligure, come già attuato nel 2018 presso la Biblioteca Civica di Pietra Ligure, ove ha curato un percorso specifico di incontri dedicati alla salute e al benessere attraverso il progetto Il sogno in cantiere": il sogno, in onore e ricordo del cantiere navale che un tempo a Pietra Ligure ha dato vita a tante navi che sono andate nel mondo, vuole ritrovare nel “Cantiere” il luogo di cultura permanente dove poter trascorrere un tempo dedicato al pensiero del cuore, per nutrire l'anima con letture, scrittura creativa, musica, conferenze, mostre.

La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.

L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.

«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman

La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)

Pedagogia della fiaba

La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.

"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli). 

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