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Attualità | 31 maggio 2020, 10:22

La Fiaba della domenica: "La riva nera"

La vicenda ha inizio in una piccola casa di legno, con il tetto di legno ricoperto di foglie e di ricci di castagno...

La Fiaba della domenica: "La riva nera"

La casa di Artemisia era situata nel bosco, nel bosco dei castagni.

Era una piccola casa di legno, con il tetto di legno ricoperto di foglie e di ricci di castagno che le donavano una magica aria di fiaba.

La casa di Artemisia era isolata dal paese di Effige, piuttosto lontano dalle ultime case dell’ultima propaggine del villaggio.

Un tempo Calpidio e Robinia, i genitori di Artemisia, vivevano nel paese di Effige, lì lavoravano e lì si conoscevano appena. Ma si innamorarono perdutamente l’uno dell’altra; dal loro amore nacque Artemisia e così i due giovani furono costretti ad andar via dal paese per costruirsi la casetta nel bosco dei castagni, isolata e lontano dai paesani di Effige.

Artemisia era una bella bambina di nove anni, gioiosa e festosa, rubiconda ed estroversa, amica di tutti gli animali e pronta a giocare con tutti.

E giocava ogni giorno, tutto il giorno, con i capelli al vento e la vestina arricciata, con la voglia di scoprire il mondo nelle sue vitalità più belle e nelle sue più attraenti spaventosità, nel suo dispiegarsi sempre uguale e nella sua multiforme variegata diversità, nel suo tranquillo fluire e nel suo tumultuoso divenire, nelle sue regole da rispettare e nei suoi piccoli spazi di trasgressione.

Artemisia rimaneva sola tutto il giorno, ogni giorno esclusa la domenica.

Il padre, infatti, era un tagliaboschi e si recava lontano dove il lavoro lo portava, uscendo all’alba di casa con la bisaccia a tracolla e tornando a notte fonda, mentre la madre era addetta al duro lavoro dei campi.

Anche Robinia, la madre, forte e risoluta, tornava alla sera, prima del marito Calpidio, giusto in tempo per scaldare la minestra o per friggere la polenta, ma comunque tardi per poter godere dei giochi della figlia e comunque tardi per poter dare a lei la gioia del racconto.

Ma Robinia era tranquilla: nel bosco dei castagni vivevano solo creature amiche, non vi erano pericoli e poi Artemisia era una bimba avveduta, attenta e risoluta come lei, forte e intelligente come il padre, sicura del proprio sentire e certa del proprio discriminare.

Un solo avvertimento aveva da subito imposto alla figlia: non avrebbe mai dovuto, per nessun motivo al mondo, andare a giocare sulla riva nera.

Poteva giocare ovunque, aveva a disposizione un bosco intero e poi prati ombrosi e verdeggianti, declivi fioriti, torrenti cristallini, promontori assolati, tutto un mondo magico insomma, ma non sulla riva nera.

La madre era stata categorica: non appena la piccola Artemisia era stata in grado di comprendere, era stata subito avviata a quest’unica proibizione.

Gioca ovunque, con chi vuoi, ma non andare mai sulla riva nera”.

Sulle prime, da piccola, ad Artemisia il divieto non era pesato: glielo aveva imposto la mamma e quindi era stato ben accetto, mai posto in discussione, accolto come un atto d’amore.

Ma poi, crescendo, il divieto era divenuto come una specie di solletico a tratti, un prurito ricorrente, un desiderio e una paura, un senso di incompiutezza e un desiderio di appagamento, un alito sul collo e un gelo nella schiena, una sorta di mistero che stimolava la sua già robusta curiosità.

Ma mai e poi mai Artemisia si era sognata di infrangere il veto imposto dalla mamma di non giocare sulla riva nera.

Anzi, se la era proprio sognata la caduta del divieto.

Più volte, nelle notti d’estate, quando la frescura notturna del bosco fatica a contrastare la calura del giorno ormai svanito, quando il sonno fatica a contenere le emozioni diffuse dai colori della veglia, quando trascolorano le immagini nitide dei fiori del prato nell’opaco velo di un sogno tanto agitato quanto inquietante.

E Artemisia più volte aveva sognato la riva nera, ora con un drago di fuoco che la inghiottiva, ora con un esercito di nani che la torturava, ora con un orco nero più nero della stessa riva che la immergeva sino a sfinirla nelle nere acque del fiume in tempesta.

E la sfiniva anche il sogno.

Infatti, dopo quelle notti, Artemisia si svegliava madida di sudore, con negli occhi e nella mente ancora le orride immagini della riva nera, ma con nel cuore una piccola vena di insoddisfazione perché era stato solo un sogno.

E la vita comunque continuava.

Artemisia per lungo tempo non pensava più alla riva nera, giocava tranquilla di giorno e sognava beata di notte, sino a quando, d’improvviso, senza motivo alcuno, l’orrendo desiderio misto a paura incontrollata di giocare sulla riva nera, contravvenendo al divieto della mamma, la coglieva con un nodo alla gola.

Così, tra giorni spensierati e giorni inquieti, Artemisia correva nel bosco dei castagni, nel suo bosco, saltava e giocava, gareggiando con gli scoiattoli e facendo nascondino con le farfalle.

Lei conosceva tutti. Si attardava a parlare con le bisce, a saltare con le ranocchie, a cinguettare con gli uccellini, a raccogliere le castagne contendendole al tasso.

Ed era amica di tutti, dei funghi come dei castagni, delle volpi come dei leprotti, dei cinghiali come dei cerbiatti.

Ogni tanto le veniva in mente la riva nera, soprattutto se ne parlava con qualcuno dei suoi amici.

Ma perché mai la mamma era sempre così categorica? Poteva almeno fornire qualche spiegazione!”

Un giorno Artemisia stava giocando a rimpiattino nel bosco con un giovane tasso, quando una vocina proveniente dal basso l’apostrofò.

Artemisia, piccola bimba del bosco, fermati un attimo a parlare con me!”

Artemisia, per quanto si guardasse intorno, non riusciva a scorgere nessuno.

Udiva solo la voce del tasso che la spronava a correre: “Dai, prendimi, non mi prendi!”

Stava per obbedire all’invito del tasso riprendendo a giocare, quando la vocina riprese :”Ascoltami Artemisia, sono qui sotto, vicino ai tuoi piedi, attenta a non calpestarmi!”

E lo vide. Vide un bellissimo fungo parlante, rosso e punteggiato di bianco, con il tenero gambo quasi trasparente sormontato dal forte cappello umido di rugiada.

Proseguì il fungo :”Cara Artemisia, io mi nutro dei segreti della terra e così conosco anche il tuo”. “Tu sei una bambina felice, ma hai un cruccio, vorresti giocare ovunque, anche sulla riva nera, ma tua mamma te lo ha proibito”. “E io, il fungo parlante, ti dico che è giunta l’ora che tu vada a giocare sulla riva nera”.

Artemisia provava un misto di paura, di gioia, di stupore. Il suo cuore era in tumulto : il simpatico funghetto la invitava a trasgredire al divieto materno e se lui diceva che lei era pronta voleva dire proprio che lei era pronta!

Così Artemisia rispose al fungo: “Caro fungo parlante, per quale motivo io adesso potrei giocare sulla riva nera?”

Perché lo vuole il folletto dei boschi!” rispose il fungo.

E chi era, di grazia, questo folletto per essere più importante della sua mamma?” pensò Artemisia e così rispose :”Grazie mio fungo, ma io obbedisco solo alla mia mamma!”

E la vita riprese a fluire secondo il corso dei giorni, dei mesi e delle stagioni, con gioie e dolori, fermenti e stupori, scoperte e delusioni.

Un giorno di pioggia, Artemisia guardava i goccioloni ticchettare sul vetro della finestra quando un ticchettio più sordo la fece sobbalzare. Sì era proprio qualcuno che bussava alla porta della sua casetta. Era una vecchina che chiedeva di entrare. La mamma aveva un bel dire di non fare mai entrare nessuno in casa!

Come si poteva lasciare alla pioggia una povera vecchia? Non certo lei, Artemisia, avrebbe lasciato fuori qualcuno che chiedeva riparo!

E così la vecchina entrò nella casetta del bosco accomodandosi vicino al camino. E subito parlò.

Grazie Artemisia di avermi fatto riscaldare e di avermi permesso di asciugare i vestiti fradici di pioggia. “Io ti ricompenserò ammonendoti di ascoltare la mamma e di non recarti mai a giocare sulla riva nera”.

Artemisia era stupefatta. “Come sai i miei segreti, cara signora, forse conosci la mia mamma?”.

Io conosco tutti e tutto, cara piccina”, riprese la vecchia, “io mi informo dalla quercia salata e lei vuole il tuo bene!” “Non è ancora l’ora che tu vada sulla riva nera”.

Pronunciate queste parole, la vecchina ringraziò nuovamente e si allontanò sparendo dietro a un castagno. Inutile dire che, dopo questo incontro, Artemisia era rafforzata nella sua obbedienza al divieto materno. Quasi non pensava più alla riva nera, quasi non sentiva più quel dolce, malinconico, fastidioso tarlo che la spingeva a tratti verso quel gioco proibito.

Un bel giorno di sole, come tutti gli altri giorni, Artemisia saltava felice nel bosco, garrula e giuliva come un’allodola spensierata che ancora non conosce il cacciatore, quand’ecco comparire davanti a lei un bellissimo cervo maschio, fiero e guizzante, superbo con le superbe corna ramificate, immagine di forza e di agilità.

Non era certo la prima volta che Artemisia vedeva un cervo. Anzi giocava spesso con i cerbiatti del bosco, li inseguiva, essi mangiavano dalle sue manine, indicava loro i sentieri sicuri fuori dall’abituale cammino del lupo.

Ma questa volta era diverso: il giovane cervo aveva un che di magnetico, di seducente, di imperativo che affascinava Artemisia, ma che al tempo stesso le incuteva paura.

Sali in groppa e cavalcami, andremo insieme sulla riva nera” disse il cervo con voce ferma e suadente.

Artemisia era come paralizzata nella volontà.

Obbedì meccanicamente al giovane cervo in un misto di paura e di gioia, lo cavalcò per monti e per valli sino alle rive di un fiume argentato.

Il fiume era proprio d’argento e scorreva tumultuoso tra due rive, una di sabbia bianca e una di sabbia nera.

Il cervo, senza indugio, si fermò sulla riva nera e chiese, sempre con voce ferma e suadente, ad Artemisia di scendere. La bambina aveva le tempie frementi, le gote di vampa, il cuore in tumulto, la schiena sudata. Ciò che le era stato sempre vietato ora la penetrava con il suo odore di umido, la pervadeva come una nebbia che vela gli occhi e oscura la realtà. Come in trance, Artemisia incominciò a camminare sulla riva nera verso l’acqua argentata sotto lo sguardo vigile e attento del giovane cervo. Arrivò con i piedi nell’acqua, e ancora avanti, era tutta bagnata e abbassò lo sguardo.

E si vide, vide la propria immagine riflessa. Ma non era lei, com’era possibile, lei si specchiava e il fiume le rimandava l’immagine di una bellissima ragazza di circa vent’anni! Lei era ancora una bambina, ma l’immagine allo specchio era quella di una donna! E svenne, cadde nell’acqua ormai divenuta profonda.

Si risvegliò sulla riva nera, adagiata sulla morbida e umida sabbia, con la vestina e i capelli fradici e con gli occhi pieni di pianto. Un bellissimo giovane la accarezzava amorevolmente, con cura e tenerezza.

Che strano”, pensò Artemisia, “questo ragazzo assomiglia moltissimo al giovane cervo, ha gli stessi occhi profondi, la stessa presenza suadente e magnetica, lo stesso corpo forte e scattante, la stessa fierezza”.

E il giovane parlò con voce fiera e dolce:”Cara Artemisia, sei caduta nel fiume, hai rischiato d’annegare, per fortuna io ero lì”.

Adesso ti accompagno dalla mamma, sei troppo piccola per giocare sulla riva nera, la mamma ha ragione, ma quando crescerai io sarò qui ad aspettarti e insieme giocheremo.

Tratto da: "Donne che corrono con gli orchi", di Elvezia Benini e Cecilia Malombra, Erga Edizioni.

GLI AUTORI:

Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.

Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Associazione Pietra Filosofale

L’Organizzazione persegue, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante l’esercizio, in via esclusiva o principale, delle seguenti attività di interesse generale ex art. 5 del D. Lgs. 117/2017:

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In concreto l’associazione, già costituita di fatto dal 27 gennaio 2016 e che ha ideato e avviato il concorso letterario Pietra Filosofale di concerto con l'amministrazione comunale, intende proporsi come soggetto facilitatore, promuovendo e stimolando proposte di cultura, arte e spettacolo sul territorio, organizzazione di eventi culturali e/o festival, ideazione e promozione di iniziative culturali anche in ambito nazionale, costruzione, recupero e gestione di nuovi spazi adibiti a luoghi di Cultura Permanente, anche all’interno di siti oggetto di riqualificazione e/o trasformazione quali ad esempio l’ex Cantiere Navale di Pietra Ligure, come già attuato nel 2018 presso la Biblioteca Civica di Pietra Ligure, ove ha curato un percorso specifico di incontri dedicati alla salute e al benessere attraverso il progetto Il sogno in cantiere": il sogno, in onore e ricordo del cantiere navale che un tempo a Pietra Ligure ha dato vita a tante navi che sono andate nel mondo, vuole ritrovare nel “Cantiere” il luogo di cultura permanente dove poter trascorrere un tempo dedicato al pensiero del cuore, per nutrire l'anima con letture, scrittura creativa, musica, conferenze, mostre.

La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.

L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.

«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman

La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)

Pedagogia della fiaba

La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.

"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli). 

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