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Attualità | 30 agosto 2020, 10:20

La Fiaba della Domenica: "L'uomo che vendeva la luna"

Un paese talmente tranquillo che... Alla fine tutto è una noia!

La Fiaba della Domenica: "L'uomo che vendeva la luna"

C’era una volta un paese lontano.

Un paese come tanti, né più bello né più brutto, né più ricco né più povero,

Solo che in questo paese non succedeva mai nulla. E viverci era proprio una noia, soprattutto per i più piccoli che, si sa, sono sempre all’esplorazione del mondo e gioiscono per le piccole e grandi novità. Ma in quel paese, ahimè, i piccoli avevano già esplorato tutto, ma proprio tutto quel che c’era da conoscere e di novità non vi era, da un pezzo, neppure l’ombra. Che noia, che barba!

In compenso in quel lontano paese, tutto scorreva liscio come l’olio, nessuno aveva da ridire su nessuno, la concordia regnava sovrana e le persone, un po’ grigie per la verità, conducevano la loro esistenza, un po’ grigia per la verità, senza scossoni e senza rimorsi.

Il grano era sempre seminato in autunno, mietuto d’estate e le balle di fieno facevano poi bella mostra di sé.

La domenica si vestiva sempre l’abito della festa, si calzavano le scarpe risuolate e ci si recava sempre alla solita Messa, ove il solito parroco dava ai bimbi le solite raccomandazioni.

C’era insomma il placido alternarsi della vita e della morte, della calura estiva e del rigore invernale, degli affanni e del riposo e la gioia derivava soltanto, e non è poco, dall’assenza di tormento.

Il parto della mucca era un evento, la malattia dell’uomo era un tormento, la scuola a ottobre che tornava era un portento, il raccolto un godimento e la grandine un patimento.

I contadini aspiravano a scossoni vitali, le contadine ambivano a sollazzi mondani, i piccoli bramavano giochi diversi. Ma era come se il paese fosse ingessato nella noia, congelato nelle abitudini e cementificato nella certezza di ciò che si conosce.

Non si poteva vedere aldilà del proprio naso, o meglio si vedeva, ma ci si bloccava sulla punta … del naso.

In quel paese, come nel resto del mondo, esisteva anche l’invidia, quel sentimento di diretta derivazione dal demonio che rovina le famiglie e fa scorrere il sangue, quella sensazione che brucia la pelle e che spinge anche il più mite tra gli uomini alla più bieca arroganza e alle azioni più truci.

In quel paese l’invidia, udite, udite, era rivolta, in gran parte, nei confronti del prete, sì di quel burroso e rubicondo parroco che la domenica tuonava dal pulpito invitando grandi e piccini ad astenersi dal peccato. Ma quale peccato? In quel paese l’unico peccato possibile, nella noia di ogni giorno, era proprio l’invidia!

Dovete sapere, infatti, che i contadini, pressoché tutti gli abitanti di quel paese, mangiavano solo polenta, o quasi solo polenta, potendo anche contare sulle castagne essiccate e su qualche patata, riservando tutti i prodotti della terra e del bestiame alla vendita per poter così ricavare qualche soldo per le incombenze, dal dottore alla scuola, dai vestiti al barbiere.

Il prete invece mangiava ogni giorno pollo o gallina, uova e formaggio, latte e salumi, tutto preteso e ottenuto dai contadini reverenti.

Questa situazione, dapprima accettata di buon grado, poi tollerata, infine subita, creava non poco malumore negli uomini più attenti e più invidiosi.

<<Non è giusto, noi lavoriamo tutto il giorno e mangiamo polenta, lui è satollo e non lavora>> diceva Tonio, e subito Anselmo <<Io mi alzo alle tre, vado nei campi sino a sera e neppure un pezzo di formaggio perché lo devo portare a lui>>.

E poi Decimo aggiungeva <<Io vorrei del buon vino, ma lo devo dare a lui, lui non lavora e mangia a quattro palmenti>>.

Ma ci pensavano le mogli a farli rientrare nei ranghi <<Brutti miscredenti, bestemmiatori di Dio e della Madonna, smettetela o attirerete le ire del cielo>>, diceva la Maria dando forza alla voce impugnando il mattarello e la Luisa <<Ingordi sfaticati pregate Iddio e pentitevi altrimenti avrete a che fare con Lui e con me!>>

E così gli uomini quatti quatti tornavano mestamente al loro lavoro, con la coda tra le gambe.

Ma il troppo era troppo e dai oggi dai domani, Tonio, Anselmo e Decimo, come la goccia di pioggia che erode la roccia, erosero la pazienza e la paura delle mogli, convincendo tutti gli uomini del paese a una iniziativa clamorosa.

Badate bene, in quel paese dove non accadeva mai nulla, ciò che fecero gli uomini fu davvero eclatante.

Cominciarono a tappare ogni buco, a chiudere ogni falla, a sigillare ogni muro con la polenta, così facendo, tronfi e a capo alto, volendo indicare il loro orgoglio di essere uomini stufi di mangiare la solita polenta quando il prete si ingozzava delle loro galline.

Figuratevi le mogli! Preghiere, minacce, scongiuri, mattarelli, scope di saggina, improperi, ritorni dalla madre: nulla servì però a smuovere gli uomini.

Ma ci pensò il prete.

Era imminente la festa del patrono. In quella festa, si era soliti, dopo la Messa e una breve processione, tornare a casa e concedersi il lusso di un fiasco di vino e di un pezzo di formaggio e magari anche un po’ di miele col burro.

Quel giorno il prete pranzò prima di Messa: un buon pollo arrostito dalla perpetua col contorno di patate dopo un generoso piatto di ravioli al ragù. E fu una lunga lunghissima Messa con una lunga lunghissima predica.

E poi, quando già i contadini stanchi da notti insonni, esausti dal duro lavoro, arrovellati dallo stomaco vuoto pregustavano la tavola della Domenica, iniziò una lunga, lunghissima processione.

Lunga, infinita, in tondo per il paese, sempre cantando le lodi al Signore e al Santo patrono.

I contadini, sfibrati, sfiniti, sfiduciati rischiavano di crollare nella calura estiva. E così il prete intonò un nuovo canto :<<Non mettete più polenta nei buchi>> <<Mi no, mi no, mi no>>, risposero all’unisono i contadini.

E così per altre infinite volte :<< Non mettete più polenta nei buchi>>, <<Mi no, mi no, mi no>>.

E così, con la forza della persuasione, la protesta rientrò, gli uomini tornarono al lavoro

e alla solita polenta, le mogli ringraziarono il Cielo e tutto tornò come prima, nel torpore e nel consueto silenzio. La bufera era passata, il disaccordo era rientrato, l’ordine era ricostituito, tutto scorreva come sempre.

E nel paese capitò Gesualdo.-

Un mattino di domenica, quando tutti, vestiti da festa, stavano recandosi alla Messa, si udì una cantilena.

<<Per un soldino, vendo la luna! Per un soldino vendo la luna!>>

Tutti compresero che non era il solito venditore ambulante, il solito ombrellaio, il solito arrotino.

Si trattava di un vecchio canuto e rubizzo, che sprizzava simpatia da ogni poro, con in mano un sacchetto trasparente colmo a dismisura di minuscoli tondini di carta colorata.

<<Per un soldino vendo la luna>> urlava il vecchietto con voce mielata, << per un soldino vendo la luna>>, sussurrava il vecchietto ai passanti sorpresi.

<<Sarà un pazzo visionario, come si può vendere e comprare la luna?>>dissero uomini e donne di quel paese.

E così di bocca in bocca :<<E’ arrivato un pazzo, che ridere, su prendiamolo in giro, godiamoci il pazzo che vende la luna, e poi lo manderemo via a calci>>.

E furono lazzi e sberleffi, motteggi e spintoni.

Ma Gesualdo pareva non curarsene, sorrideva e proponeva senza sosta il suo miracolo.

Ma i bambini non la pensavano come gli adulti. I bambini erano affascinati dal simpatico vecchio, lo seguivano e gli fornivano un codazzo amoroso, gli portavano l’acqua, un po’ di pane e molti sorrisi. Soprattutto Cecilia, la bimba più bella e più buona del paese, fu pervasa dalla gioia del vecchio, dal suo essere semplice e misterioso, dal suo proporre un bel sogno.

Così Cecilia convinse gli amici a rinunciare al soldino faticosamente ammucchiato per donarlo al vecchietto in cambio del tondino colorato. Non era semplice eludere la sorveglianza degli adulti, avvicinare Gesualdo e offrirgli il soldino, ma, si sa, i piccoli sono pieni di risorse e così elaborarono un piano.

A sera, quando gli adulti cascano dal sonno, in un duro sonno ristoratore, vinti dalla fatica e dalla calura, si sarebbero avvicinati a Gesualdo che dormiva per strada e avrebbero comprato la luna.

E così fecero.

I primi tre, i più coraggiosi, furono Cecilia, Borzo e Cippo che, lemme lemme, quatti quatti, sgattaiolarono fuori di casa con il soldino nel pugno e la gioia nel cuore.

Gesualdo li accolse con un ampio sorriso, stava pregando, le mani giunte e gli occhi al cielo rischiarato dalla luna.

<<Vi aspettavo, cari bambini, grazie di essere venuti, ecco la vostra luna>>.

E così dicendo, cavò fuori dal sacco tre tondini luccicanti che porse ai bambini.

Il tempo era poco, loro erano fuori di casa all’insaputa dei genitori, bisognava tornare, col cuore felice e gli occhi sfavillanti di gioia.

E si avviarono di corsa verso casa, col prezioso tondino colorato nel pugno. E mentre loro tornavano verso casa, i Carabinieri si avviavano verso Gesualdo.

E sì, perché gli adulti, scoperti i bimbi fuori casa, compresa subito la loro destinazione, avevano deciso che era ora di finirla con il vecchio pazzo e imbroglione.

E chi, in quel paese, meglio dell’ordine costituito poteva riportare l’ordine costituito?

Gesualdo venne così gettato in una buia maleodorante cella con l’accusa di imbroglio, truffa, furto, bugia, gioia di vivere, novità, utopia e quant’altro gli adulti riuscirono a inventare.

Come si poteva vendere la luna? Come si potevano imbrogliare così i bambini ed estorcere loro i soldini? Come si potevano vendere sogni impossibili? Come si poteva sconvolgere la vita del paese?

Bisognava provvedere e mettere a tacere quella voce indegna.

Ma Cecilia, quella notte, sognò la luna col suo bel faccione rotondo, tanto simile al volto del nonno, che andava da lei vicino al suo giaciglio e lì si accoccolava sorridendo e accovacciando il suo tenero corpaccione.

E iniziavano un dialogo rasserenante, dolce, ove la luna era la maestra che illustrava i misteri del mondo e Cecilia l’allieva che, apprendendo, insegnava la fiducia del Bene.

E il dialogo proseguiva, proseguiva con tanta lunare tenerezza, sino al risveglio.

Anche Borzo sognò: la sua amata nonna, morta da poco, lo prendeva per mano nel suo rozzo lettino e lo portava sulla luna tra fiumi di latte e prati di fiori, in un crescendo di luce bianca e rasserenante.

E pure Cippo sognò : un omino piccino lo invitava a salire sul suo missile e lo conduceva al suo paese lunare in un battibaleno, con un tuffo al cuore per la velocità del veicolo e per lo scintillio della scia luminosa.

I tre bambini, appena svegli, con il tondino nel pugno, corsero da Gesualdo per raccontargli lo splendido vissuto del sogno e per ringraziarlo di aver venduto loro la luna.

Ma, ahimè, Gesualdo non c’era, era stato incarcerato, era stato gettato nel buio per aver portato al paese la luce della luna.

E così corsero a perdifiato, forti della loro certezza e arricchiti del loro sogno incantato, verso le segrete del paese, verso la trista prigione che racchiudeva l’uomo della luna.

E proprio la luna portarono con sé, quella luna che invase la cella buia e maleodorante con una luce bianca e profumata, spezzando sbarre e catene, per liberare quell’uomo che aveva donato ai bambini la prospettiva di una luminosa vita a colori.

Tratto da: "Le fiabe per... affrontare la solitudine (un aiuto per grandi e piccini)", di Elvezia Benini e Giancarlo Malombra, collana "Le Comete", Franco Angeli Editore. 

GLI AUTORI:

Elvezia Benini, psicologa, psicoterapeuta a orientamento junghiano, specialista in sand play therapy, consulente in ambito forense, già giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova. Autrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Cecilia Malombra, psicologa clinica, specializzanda in criminologia e scienze psicoforensi, relatrice in convegni specialistici per operatori forensi e socio-sanitari. Autrice di pubblicazioni a carattere scientifico.

Giancarlo Malombra, giudice onorario presso la Corte d'Appello di Genova sezione minori, già dirigente scolastico, professore di psicologia sociale. Autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.

Associazione Pietra Filosofale

L’Organizzazione persegue, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante l’esercizio, in via esclusiva o principale, delle seguenti attività di interesse generale ex art. 5 del D. Lgs. 117/2017:

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In concreto l’associazione, già costituita di fatto dal 27 gennaio 2016 e che ha ideato e avviato il concorso letterario Pietra Filosofale di concerto con l'amministrazione comunale, intende proporsi come soggetto facilitatore, promuovendo e stimolando proposte di cultura, arte e spettacolo sul territorio, organizzazione di eventi culturali e/o festival, ideazione e promozione di iniziative culturali anche in ambito nazionale, costruzione, recupero e gestione di nuovi spazi adibiti a luoghi di Cultura Permanente, anche all’interno di siti oggetto di riqualificazione e/o trasformazione quali ad esempio l’ex Cantiere Navale di Pietra Ligure, come già attuato nel 2018 presso la Biblioteca Civica di Pietra Ligure, ove ha curato un percorso specifico di incontri dedicati alla salute e al benessere attraverso il progetto Il sogno in cantiere": il sogno, in onore e ricordo del cantiere navale che un tempo a Pietra Ligure ha dato vita a tante navi che sono andate nel mondo, vuole ritrovare nel “Cantiere” il luogo di cultura permanente dove poter trascorrere un tempo dedicato al pensiero del cuore, per nutrire l'anima con letture, scrittura creativa, musica, conferenze, mostre.

La “Filosofia dell'associazione” è quella di ridare vita al "Cantiere" in una nuova forma e in un nuovo spazio, ma con lo stesso intento di progettare e costruire "mezzi" speciali, per poter viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare spazio e tempo migliori in cui vivere.

L'Associazione vuole favorire l'alchimia di differenti linguaggi, promuovendo spazi di arte, cultura e spettacolo, convogliando le energie nascoste, rintracciando il messaggio archetipico attraverso la narrazione, tentando di recuperare i meandri del proprio Sé, per creare momenti di incontro, scambio e ascolto e per gioire dell'Incanto della Vita. L'aspetto narrativo si è già concretizzato nel 2016 attraverso l'esperito Concorso letterario sulla fiaba; la fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare. L'intento è quindi quello di compiere il “varo” di un “Festivalincantiere” quale contenitore di numerose iniziative, in primis il recupero del concorso letterario sulla fiaba, per poter consentire di viaggiare con l'immaginazione, strumento di fondamentale importanza per creare uno spazio e un tempo migliori in cui vivere e per offrire al Comune l'ampliamento della propria visibilità culturale sia a livello locale sia nazionale e oltre.

«I luoghi hanno un'anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.» scrive James Hillman

La triste verità è che la vera vita dell'uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure essere certi che l'uno prevarrà sull'altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre: se così non fosse finirebbe la vita. (C.G.Jung, L'uomo e i suoi simboli)

Pedagogia della fiaba

La fiaba è metafora di vita: se il suo linguaggio è ricco e articolato, anche la vita, di conseguenza, sarà ricca e articolata, capace, come per i personaggi delle fiabe, di conservare una nicchia di libertà che faccia considerare l'alterità, l'altro, come un patrimonio da tesaurizzare e non come un competitor o peggio come un diverso stigmatizzabile in minus da omologare coercitivamente.

"L'aspetto linguistico così intenso ed evocante contesti e costrutti, spesso caduti nell'oblio, è il necessario contenitore, è la pelle del daimon che consente a ciascuno di riappropriarsi di conoscenza e di dignità, ricordando a tutti e a ognuno che l'ignoranza è la radice di tutti i mali". (Giancarlo Malombra in "Narrazione e luoghi. Per una nuova Intercultura", di Castellani e Malombra, Ed Franco Angeli). 

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